La legge sulle Norme in materia di procreazione medicalmente assistita (Pma), ricordata più brevemente come legge 40, fu approvata il 10 marzo 2004. Un provvedimento fortemente voluto, ampiamente necessario, lungamente discusso. Ma immediatamente contestato dalla sinistra radicale, che nel giro di sei mesi si fece carico di un referendum abrogativo, sottoponendo cinque quesiti alla Corte Costituzionale.
Il 12 e 13 giugno 2005, la legge 40/2004 sulla Pma fu quindi oggetto del referendum popolare per l’abrogazione di alcuni punti che, a detta dei promotori del referendum, sembravano andare contro il diritto alla salute della donna.
La Corte Costituzionale ammise quattro dei cinque referendum proposti e respinse il primo, promosso dai radicali, che chiedeva l’abrogazione completa della legge. Il Comitato Scienza &Vita in difesa della legge 40, di cui allora ero presidente, puntò tutta la campagna su di uno slogan facile da capire e facile da tradurre in atto: “Sulla vita non si vota”.
Del Comitato facevano parte rappresentanti di tutte le associazioni del mondo cattolico, grandi e piccole; molti esponenti della società civile, non solo persone vicine al mondo cattolico, ma anche non credenti e non praticanti, convinti del valore della vita in sé stessa. Liberali non allineati a quello che anche allora sembrava una sorta di pensiero dominante, a cui la stragrande maggioranza della stampa dava ampio spazio sulle diverse testate. La legge è stata successivamente smantellata nelle aule dei tribunali a opera degli interventi della magistratura.
Si scelse una strategia coraggiosa, con cui si invitava a non andare a votare. All’inizio non molti compresero la scelta del Comitato di adottare questa linea di condotta, ma sollecitati a fare una riflessione ulteriore appariva evidente il perché della scelta astensionistica. L’ipotesi dei promotori del referendum era semplice: la chiamata al voto dei No, fatta dal Comitato Scienza&Vita, non avrebbe impedito la vittoria dei Sì e contemporaneamente avrebbe garantito il quorum del 50 per cento più uno degli elettori richiesto dalla legge italiana per la validità del referendum.
La scelta dell’astensione era quindi la risposta obbligata per i difensori della legge 40/2004, per non risultare perdenti a priori e soprattutto per vincere su due fronti: riaffermare il valore della vita, su cui appunto non si vota, e far fallire il referendum, lasciandone tutti i costi a carico dei promotori. Una scelta politica mirata allo scopo, all’efficacia conseguente e alla dignità del proprio agire.
Il referendum
Il referendum fu un’occasione straordinaria di educazione scientifica nel Paese. Si crearono comitati locali di Scienza&Vita stimolando un’azione capillare di intensa collaborazione tra mondi associativi di matrice cattolica che spesso non si erano mai incontrati, e non solo non avevano mai collaborato, ma avevano avuto anche posizioni di aperta competitività. Si moltiplicarono gli incontri a carattere scientifico per spiegare alle persone in cosa consistesse la Pma, i suoi vantaggi e i suoi rischi, e perché, nonostante tutto, la legge andasse difesa per fermare quello che allora veniva chiamato far west procreatico. Si cercò di far capire come in diversi laboratori, nei centri dedicati alla Pma, sembrava che ogni medico, ogni ricercatore, fosse libero di fare quel che voleva, senza una riflessione previa sui criteri etici e morali e sulle conseguenze che determinate iniziative avevano sulla salute della donna.
Il referendum non raggiunse il quorum: oltre il 75% degli italiani non andò a votare avendo ben compreso qual era la posta in gioco e si schierò dalla pare della scienza e della vita.
Stando ai dati definitivi, i referendum del 12-13 giugno sono stati i meno votati in assoluto nella storia della repubblica italiana. Non hanno votato tre cittadini su quattro: il 74,5% degli aventi diritto al voto che in Italia erano allora poco più di 50 milioni. E tra quel 25,5% che andò a votare, non tutti risposero Sì ai quattro quesiti, come volevano i promotori dei referendum.
Tre dei quattro quesiti miravano a cancellare i divieti posti dalla legge 40/2004 sulla selezione, sull’utilizzo e sull’uccisione di embrioni prodotti in vitro. Mentre il quarto mirava a rimuovere il divieto della fecondazione “eterologa”, ossia con gameti prelevati da “donatori” esterni alla coppia. Ai primi tre quesiti dissero No, difendendo i divieti posti dalla legge, circa il 12% dei votanti, mentre al quarto quesito i No furono di più: circa il 22,6%.
Nessuna Regione, nemmeno nelle Regioni tradizionalmente dominate dalla sinistra, come Emilia-Romagna e Toscana, si superò il 25-30% dei votanti, nonostante il pressing dei maggiori quotidiani nazionali e l’azione capillare del più forte partito della sinistra di allora, i Democratici di sinistra, gli eredi del Partito comunista italiano.
Fu una vittoria del mondo cattolico, della sua ritrovata unità, e del coinvolgimento di tutti, nessuno escluso; fu una vittoria della vita, scelta come parametro unico di riferimento e fu la vittoria di una strategia semplicissima da proporre e da attuare. Quindici anni fa quindi ci fu un grande movimento popolare che si schierò dalla parte della vita e dalla famiglia, quale non è più visto negli anni successivi.
Dal dopo referendum ai nostri giorni
Negli anni successivi il tribunale, su sollecitazione di quesiti promossi per lo più da persone vicine all’Associazione Luca Coscioni, dei radicali italiani, ha parzialmente invalidato i risultati del referendum, rendendo possibile la fecondazione di più di tre gameti, avendo cancellato l’obbligo di un loro impianto contemporaneo (151/2009); ha permesso la fecondazione eterologa (162/2014) e la diagnosi pre-impianto, per facilitare l’accesso alla Pma alle coppie fertili portatrici di patologie genetiche (96/2015).
È facile comprendere come i divieti rimossi dalla magistratura in realtà siano tutt’altro che a tutela della salute della donna e della dignità dell’embrione, che almeno in linea di principio è riaffermata proprio dall’articolo 1 della legge, che non è affatto stato cancellato: “La presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”. Ed è proprio da questo principio che scaturisce il divieto di ricerca scientifica sugli embrioni, prodotti in sovrannumero e congelati.
Resta comunque tuttora attivo l’altro divieto fondamentale: il divieto dell’utero in affitto. Art. 12, comma 6: “Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con…”. Anche se in Italia non è possibile ricorrere materialmente all’utero in affitto, sappiamo che c’è ampio spazio alla pubblicità di questa pratica che tanto profondamente umilia la dignità della donna e che comunque resta proibita a norma di legge.
Ma proprio su questi due punti dovrebbe restare alta la nostra attenzione, perché non c’è dubbio che sussista la esplicita volontà di cancellare entrambi, ricorrendo a motivazioni apparentemente nobili, ma in realtà lesive del diritto alla vita di ogni concepito e del diritto ad una famiglia formata da padre e madre, disposti a prendersi cura di lui. Non a caso si parla dei diritti della scienza e della ricerca scientifica che dovrebbero disporre dell’immenso patrimonio degli embrioni congelati, per sottoporli a sperimentazioni di ogni genere. E del diritto di ogni coppia ad avere un figlio, a qualsiasi condizioni, compresa quella di frammentare l’immagine materna scomponendola in madre genetica, madre gestazionale, e madre sociale… Facendo scomparire quella relazione unica e fondativa per ogni essere umano che è rappresentata dal rapporto madre-figlio, che inizia nel momento stesso della gestazione. Senza per questo nulla togliere alla pienezza della genitorialità che si realizza nell’adozione.
A 15 anni dal referendum, e nonostante le sistematiche aggressioni che finora la legge ha subito e potrebbe subire prossimamente, difendiamo ancora con la massima condizione questi due diritti, che ci ostiniamo a considerare non negoziabili: il diritto alla vita per ogni essere umano, a cominciare dal suo status di embrione, e il diritto di ogni bambino ad avere una famiglia, formata da un padre e da una madre.