Un recentissimo studio condotto dal cardiologo Giulio Stefanini e dalla ginecologa Nicoletta Di Simone – entrambi docenti della Humanitas University – e pubblicato sul rinomato European Heart Journal è andato ad indagare per la prima volta un’eventuale correlazione tra la procreazione assistita e l’insorgenza di problemi cardiovascolari per capire se sia un trattamento considerabile completamente sicuro, o se siano necessarie maggiore attenzioni dopo la fecondazione: per lo studio – di tipo metanalitico – sono state prese in esame le cartelle cliniche di più di 500mila donne che si sono sottoposte ai trattamenti di procreazione assistita e sono state seguite nel corso dei 10 anni successivi.
Prima di arrivare all’effettivo studio protagonista di questo articolo, è necessario fare un passo indietro per comprenderne l’importanza per la comunità medica: infatti nel corso degli ultimi anni il numero di donne che si sottopongono alla procreazione assistita è aumentato esponenzialmente rappresentando attualmente circa il 4% delle nascite nell’intero mondo e – ma il dato è riferito al 2022 – il 4,25% di quelle italiane; ma è cresciuta analogamente anche l’età delle donne che decidono di richiedere questi trattamenti con un vero e proprio boom (circa il 34% dei casi) tra le over 40 che ha spostato l’asticella della media fino ai 37 anni nel 2022 rispetto ai 34 che si registrarono nel 2005.
Lo studio sulla procreazione assistita: “Non aumenta i rischi cardiovascolari, ma il follow-up è fondamentale”
Dato che aumenta l’età delle donne che si sottopongono alla procreazione assistita, era necessario capire se aumentasse anche il rischio di incorrere in problemi cardiovascolari dato che questi ultimi restano la principale causa di decesso nella popolazione femminile: la buona notizia è che su tutti e 500mila i casi presi in esami dagli esperti di Humanitas University “non è stata riscontrata alcuna evidenza significativa – spiega il dottor Stefanini nello studio – che l’uso della PMA aumenti il rischio di eventi cardiovascolari gravi”, citando tra questi ultimi “infarti, ictus o tromboembolie“.
Risultati – è bene precisarlo – che si fermano a 10 anni dall’effettiva data della procreazione assistita, ma che diventano incoraggianti se si guarda al quadro completo perché i ricercatori hanno ancora appurato che nel periodo immediatamente successivo all’impianto i rischi aumentano leggermente per poi scemare a tornare a livelli normali: proprio per questo la conclusione è che diventa “fondamentale” il follow-up delle pazienti “in centri ginecologici e ostetrici che offrano approcci di cura multidisciplinari“, soprattutto nel corso dei primi anni successivi alla procreazione assistita.