Con la sentenza 221/2019, decisa il 18 giugno scorso al termine di un’udienza pubblica e depositata il 23 ottobre, la Corte costituzionale ha sancito l’inammissibilità nel nostro Paese del ricorso alla procreazione medicalmente assistita (Pma) – nella forma clinica della fecondazione in vitro con trasferimento in utero dell’embrione – per le coppie formate da persone dello stesso sesso.



In questa delibera la Consulta ha confermato la piena legittimità costituzionale di quanto stabilito dall’articolo 5 della legge 40/2004: il ricorso alle tecniche di Pma è consentito solo a “coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi”.

Si tratta di un pronunciamento di notevole rilievo antropologico, etico e giuridico, che qualifica culturalmente e socialmente il nostro Paese per il livello di tutela e promozione del figlio e delle sue relazioni affettive ed educative anche nel confronto con indirizzi giurisprudenziali e legislativi diversi che si stanno sviluppando in altri paesi dell’Unione Europea. Per esempio, in Francia, il disegno di legge per la revisione della normativa bioetica nazionale – approvato in prima lettura dall’Assemblea nazionale il 26 settembre scorso, nonostante una vasta opposizione popolare – prevede la possibilità del ricorso alla Pma anche da parte di coppie lesbiche e di donne singole (“Un bébé-éprouvette pour toutes”, come recita lo slogan delle attiviste che rivendicano la nuova norma).



La Suprema Corte italiana, a sostegno della propria decisione, ha ritenuto di richiamare che “anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato, d’altra parte, in più occasioni, che nella materia della Pma, la quale solleva delicate questioni di ordine etico e morale, gli Stati conservano – segnatamente quanto ai temi sui quali non si registri un generale consenso – un ampio margine di apprezzamento (tra le altre, sentenze 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia; Grande Camera, 3 novembre 2011, S. H. e altri contro Austria)” (Considerato, n. 9).

Una giusta “sovranità” dei singoli Paesi che riflette e valorizza la loro storia civile e religiosa, la cultura della vita e delle relazioni familiari, la sensibilità morale e sociale, e l’ordinamento giuridico che caratterizza i diversi popoli del continente europeo.



Nel caso in questione, quello della Pma, i giudici della Consulta, richiamando precedenti sentenze della stessa Corte, mettono in rilievo che “la materia tocca, al tempo stesso, ‘temi eticamente sensibili’ (Sentenza 162/2014), in relazione ai quali l’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio fra le contrapposte esigenze, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene ‘primariamente alla valutazione del legislatore’ (Sentenza 347/1998). La linea di composizione tra i diversi interessi in gioco si colloca, in specie, nell’’area degli interventi con cui il legislatore, quale interprete della volontà della collettività, è chiamato a tradurre, sul piano normativo, il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale’ (Sentenza 84/2016). Ciò ferma restando la sindacabilità delle scelte operate, al fine di verificare se con esse sia stato realizzato un bilanciamento non irragionevole (Sentenza 162/2014)” (Considerato, n. 9).

Una particolare attenzione – di tutto rilievo – è quella riservata ai diritti del concepito mediante Pma e del nascituro. “La possibilità – dischiusa dai progressi scientifici e tecnologici – di una scissione tra atto sessuale e procreazione, mediata dall’intervento del medico, pone, in effetti, un interrogativo di fondo: se sia configurabile – e in quali limiti – un ‘diritto a procreare’ (o ‘alla genitorialità’, che dir si voglia), comprensivo non solo dell’an e del quando, ma anche del quomodo, e dunque declinabile anche come diritto a procreare con metodi diversi da quello naturale. Più in particolare, si tratta di stabilire se il desiderio di avere un figlio tramite l’uso delle tecnologie meriti di essere soddisfatto sempre e comunque sia, o se sia invece giustificabile la previsione di specifiche condizioni di accesso alle pratiche considerate: e ciò particolarmente in una prospettiva di salvaguardia dei diritti del concepito e del futuro nato” (Considerato, n. 9).

I giudici della Suprema Corte riconoscono che precedenti sentenze della Corte stessa sono intervenute a correggere alcuni commi della legge 40/2004 (in particolare l’articolo 4 comma 3), ma muovendosi sempre “nella logica del rispetto – e, anzi, della valorizzazione – della finalità (lato sensu) terapeutica assegnata dal legislatore alla Pma (proiettandola, nel caso della sentenza 96/2015, anche sul nascituro), senza contestare nella sua globalità – in punto di compatibilità con la Costituzione – l’altra scelta legislativa di fondo: quella, cioè, di riprodurre il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una figura materna e di una figura paterna” (Considerato, n. 11).

La necessità della presenza di una duplice figura genitoriale eterosessuale – quella materna e paterna – come presupposto ineliminabile di ogni considerazione etica e giuridica sulla procreazione assume dunque un rilievo costituzionale, dal quale non si potrà prescindere in ogni futuro disegno di legge o contenzioso giudiziario su un presunto, antropologicamente e giuridicamente infondato, “diritto al figlio” per tutte le coppie, anche omosessuali, o addirittura per i singoli cittadini.

In tal senso, i membri della Consulta hanno precisato ulteriormente che l’eventuale “ammissione alla Pma delle coppie omosessuali, conseguente al loro accoglimento, esigerebbe, infatti, la diretta sconfessione, sul piano della tenuta costituzionale, di entrambe le idee guida sottese al sistema delineato dal legislatore del 2004, con potenziali effetti di ricaduta sull’intera platea delle ulteriori posizioni soggettive attualmente escluse dalle pratiche riproduttive (oltre che con interrogativi particolarmente delicati quanto alla sorte delle coppie omosessuali maschili, la cui omologazione alle femminili – in punto di diritto alla genitorialità – richiederebbe, come già accennato, che venga meno, almeno a certe condizioni, il divieto di maternità surrogata)” (Considerato, n. 12).

La Suprema Corte critica giustamente i giudici dei tribunali ordinari di Pordenone e di Bolzano che hanno fatto ricorso per una equiparazione di fatto e di diritto che non sussiste: “L’infertilità ‘fisiologica’ della coppia omosessuale (femminile) non è affatto omologabile all’infertilità (di tipo assoluto e irreversibile) della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive: così come non lo è l’infertilità ‘fisiologica’ della donna sola e della coppia eterosessuale in età avanzata. Si tratta di fenomeni chiaramente e ontologicamente distinti. L’esclusione dalla Pma delle coppie formate da due donne non è, dunque, fonte di alcuna distonia e neppure di una discriminazione basata sull’orientamento sessuale”.

E a conforto di questo viene ricordata “anche la Corte europea dei diritti dell’uomo. Essa ha affermato, infatti, che una legge nazionale che riservi l’inseminazione artificiale a coppie eterosessuali sterili, attribuendole una finalità terapeutica, non può essere considerata fonte di una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti delle coppie omosessuali, rilevante agli effetti degli articoli 8 e 14 Cedu: ciò, proprio perché la situazione delle seconde non è paragonabile a quella delle prime (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 15 marzo 2012, Gas e Dubois contro Francia)” (Considerato, n. 12).

Una sentenza esemplare – la 221/2019 della Corte costituzionale – sia sotto il profilo del preminente diritto del concepito (anche mediante Pma) ad avere due genitori eterosessuali (diritto “del figlio” e non “al figlio”), che sotto quello del significato propriamente clinico delle tecniche di Pma, che riguarda solo le coppie in cui è presente una condizione patologica (di uno o entrambe i partner) che attiene al processo riproduttivo.

La legislazione e le sentenze non possono snaturare gli atti clinici, obbligando la medicina a soddisfare desideri privi di fondamento antropologico, etico e giuridico anziché perseguire esclusivamente il proprio scopo professionale e deontologico, che è quello di prendersi cura dei malati.