Caro direttore,
è bastato che – a crisi di governo ormai aperta – il leader della Lega Matteo Salvini ventilasse la candidatura di Silvio Berlusconi per il Quirinale fra un anno perché Romano Prodi ruggisse subito su un’intera pagina di Repubblica per rammentare a tutti che il candidato del “fronte democratico” per la successione a Sergio Mattarella resta lui. Non figure come Walter Veltroni, Dario Franceschini o Pierferdinando Casini (o Enrico Letta). Meno che mai Massimo D’Alema. Per non parlare dello stesso premier dimissionario Giuseppe Conte o di (non improbabili) candidature di puro teatro da parte di M5S: come Stefano Rodotà o Milena Gabanelli nel 2013. Senza dimenticare Giuliano Amato: forse il possibile concorrente “di larghe intese” più temibile. L’attuale vicepresidente della Corte costituzionale è stato in ballottaggio fino all’ultimo, nel 2015, con lo stesso Mattarella: che prevalse perché il premier-leader Pd, Matteo Renzi, decise di rompere il cosiddetto “patto del Nazareno” fra la sua quasi-maggioranza di centrosinistra e Forza Italia.
Allora Prodi stava cercando di rimarginare la ferita cocente subita già in occasione della riconferma di Giorgio Napolitano nel 2013. Candidato ufficiale del centrosinistra con forti chance di successo, l’ex premier bolognese era stato impallinato da 101 “franchi tiratori”: in gran parte parlamentari Pd fedeli di Matteo Renzi, centrista già in ascesa contro la declinante “Ditta” ex Ds. Da quel colpo Prodi non si è mai veramente ripreso: almeno fino a quando la pesante sconfitta del Pd renziano nel 2018 e la crisi di governo dell’anno successivo non gli hanno riaperto spazi di azione politica.
E’ stato lui a battezzare apertamente l'”operazione Orsola”. il ribaltone di governo dal Conte-1 gialloverde al Conte-2 giallorosso. E’ stato lui – ex presidente della Commissione Ue – il power broker fra l’establishment franco-tedesco (e Ppe-Pse-Alde) e i palazzi del potere romano contro l’impetuosa avanzata della Lega al voto europeo. E’ stato lui a pilotare dall’Italia un primo “ribaltone” all’europarlamento: portando alla presidente designata della Commissione, la popolare tedesca Ursula von der Leyen, voti preziosi da parte dei “cani sciolti” M5S a Strasburgo. E’ stato lui a trattare tutte le contropartite politiche: l’endorsement dei leader Ue all’esperimento trasformista del grillino non eletto Conte; la presidenza dell’europarlamento al Pd italiano David Sassoli; la nomina dell’ex premier Pd Paolo Gentiloni a commissario agli Affari Economici; l’approdo al MEF di Roberto Gualtieri, un europarlamentare Pd vicino ai vertici Leu.
Dopo il ribaltone, il ruolo Prodi non è stato affatto marginale nel polarizzare in chiave fortemente elettorale l’agenda del governo Pd-M5S-Leu. Dal settembre 2019 al gennaio 2020 il Conte-2 non ha prodotto alcune reale azione di governo al netto di una manovra incolore. L’esecutivo (che un anno fa stava cadendo sullo stesso “caso Bonafede” su cui stava cadendo in questi giorni) si è invece ridotto a una semplice barricata politica: prima utile ad assorbire nuove sconfitte elettorali del fronte giallorosso (alle regionali in Umbria e Calabria); poi per preparare “l’ultima battaglia”, vinta con molta fatica alle regionali in Emilia Romagna. E’ in un'”officina” del prodismo bolognese che è stato inventato il fenomeno mediatico delle Sardine: una trovata di livello paragonabile alle molte partorite dalle strutture di comunicazione di Palazzo Chigi.
Durante la pandemia – e ancora all’intervista di ieri – Prodi si è segnalato per una rigida difesa “a prescindere” di Conte e del suo esecutivo: sempre “a prescindere” dal contenuto dell’azione di governo e in funzione stretta di autodifesa della maggioranza contro una probabile affermazione del centrodestra in caso di voto anticipato. Nel frattempo, il governatore dell’Emilia Romagna, il dem autonomista Stefano Bonaccini, ha nominato Prodi primo dei suoi consiglieri economici per un recovery plan regionale. E l’81enne economista reggiano resta attivissimo soprattutto nelle relazioni italo-cinesi: a fine novembre è volato ancora una volta a Pechino, venendo ricevuto dal premier Wen Jabao.
E Berlusconi? Il Cavaliere – 84 anni compiuti – il suo “colpo” l’aveva ricevuto già nel 2011: quando dovette lasciare – per l’ultima volta – Palazzo Chigi sotto il fuoco incrociato dei mercati finanziari e delle cancellerie europee. Ma dieci anni dopo è ormai pacifico che non si trattò per nulla di una ferita mortale, forse anzi il contrario. Da allora Berlusconi è stato in “quasi-maggioranza” con il governo Monti e – attraverso il “prestito” dei senatori di Ala – con i tre governi della legislatura di centrosinistra. E’ nominalmente all’opposizione dal 2018, ma contribuendo attivamente al clima politico attorno a Conte-2 con continui segnali di apertura. In cambio ha beneficiato di dieci anni di “proroga” piena del duopolio televisivo fra Rai e Mediaset e di una difesa più che tacita da parte dei poteri pubblici dall’attacco portato in Borsa del gruppo Vivendi contro Cologno e contro Tim. E’ stato da ultimo il Conte-2 a opporsi a una sentenza della Corte di giustizia Ue e a porre virtualmente Mediaset fra le aziende strategiche del Paese. La magistratura, intanto, sembra aver allentato la sua storica pressione sul Cavaliere: che ora viene anzi corteggiato per una possibile maggioranza “di salute pubblica” dal Pd romanocentrico di Nicola Zingaretti e dal movimento grillino-contiano finora co-pilotato da Marco Travaglio.
E’ molto probabile che Berlusconi presti alle voci di candidatura al Quirinale un orecchio più leggero e divertito di quello di Prodi. Ed è presumibile che entrambi guardino con un interesse più realistico a un possibile scranno di senatore a vita. C’è comunque qualcosa di simbolico in quello che si profila come l’ultimo duello dei due grandi protagonisti della Seconda Repubblica. Ed appare in fondo un derby fra “over 80” ancora più credibili dei quaranta-cinquantenni che da tre anni lottano per affermarsi come protagonisti della Terza Repubblica.