“Siamo passati dentro una tempesta, la nostra barca è stata spostata dalla sua rotta originaria e siamo vicini agli scogli, in una situazione pericolosa: adesso stiamo uscendo dal lockdown, ma non abbiamo ancora un punto nave, dobbiamo però tenere il timone ben saldo e riformulare una rotta nuova, diversa da quella precedente. Non so se dovremo concentraci di più sui senza fissa dimora o sull’impresa sociale per dare lavoro alle persone in difficoltà o se essere ancor più presenti nell’assistenza: probabilmente sarà un po’ tutto questo, perché con l’emergenza coronavirus la situazione dei più fragili è senz’altro peggiorata”. Da appassionato di navigazione a vela usa questa metafora del mare Alberto Sinigallia, presidente della Fondazione Progetto Arca, che soprattutto a Milano e in Lombardia, da ben 26 anni, lavora ogni giorno con la stessa passione e voglia di proteggere e valorizzare ogni persona fragile – senza dimora, famiglie in difficoltà, anziani soli, richiedenti asilo – ascoltandole a una a una, offrendo beni di prima necessità, che siano un pasto, una coperta o un letto, con la sollecitudine a supportarle in un percorso di recupero della propria dignità e autonomia. Progetto Arca nell’ultimo anno ha aiutato oltre 10.500 persone, con 1,6 milioni di pasti serviti, 505mila notti di accoglienza offerte, 4.600 visite mediche eseguite.



Progetto Arca Onlus nasce nel 1994 dall’incontro di un gruppo di amici, impegnati in attività di volontariato presso il rifugio per senzatetto di Fratel Ettore Boschini, a Milano. Chi era Fratel Ettore? E cosa le ha insegnato?

Il mio volontariato con Fratel Ettore è iniziato nel 1984. Per me è stato un maestro, mi ha trasmesso l’amore per questa forma di carità verso i senza dimora. Fratel Ettore era la loro “stampella”: partiva dall’assistenza, ma sempre teso a responsabilizzarli.



In che modo?

“Io ci sono se tu vuoi cambiare la tua vita”: lo diceva a tutti quelli che incontrava e assisteva. Fratel Ettore sapeva che bisognava dare responsabilità e non prendersi le loro. Altrimenti, oggi come ieri, non li si aiuta veramente.

C’è un aneddoto che l’ha colpita particolarmente e che può aiutare a descrivere con quale passione per la ripresa della vita personale si muoveva Fratel Ettore?

Per non abituarli a farli sentire in una posizione comoda e deresponsabilizzante, qualche volta aggiungeva un po’ di aceto al minestrone, per ricordare a loro che quello non era un porto d’arrivo in cui adagiarsi, ma un punto di ripartenza. Oppure piastrellava i centri d’accoglienza con materiale edile già usato e scartato nei cantieri, come a dire: questa non è la vostra casa definitiva, ma un luogo di povertà dove iniziare una ripresa, scoprendo la ricchezza che avete dentro, e lui era al loro fianco per accompagnarli in questo cammino. Fratel Ettore rompeva tutti gli schemi, teneva desta la loro umanità, non li faceva certo addormentare, e in questo era molto determinato. Era una sveglia continua.



Quel seme di carità di Fratel Ettore è germogliato e da 26 anni Progetto Arca protegge e accompagna le persone fragili e in difficoltà. Chi sono oggi i più vulnerabili?

Sono tanti e diversi. Noi abbiamo iniziato negli anni 80-90 con i tossicodipendenti senza dimora, una missione che seguiamo ancora. Oggi aiutiamo senza fissa dimora, persone svantaggiate, famiglie in difficoltà, anziani soli, richiedenti asilo tramite case di accoglienza, progetti di integrazione sociale e di impresa sociale, come quella ospitata presso l’Abbazia di Mirasole, dove non si fa solo accoglienza ma si punta anche al reinserimento lavorativo. Casa e lavoro sono le due colonne, oltre all’assistenza, che noi teniamo sempre in considerazione.

E come aiutate le persone più fragili? Perché il vostro modello è “azione e cuore”?

Aggiungerei anche testa. Azione, cuore e testa sono i tre centri propulsori dell’uomo. Il cuore, l’emozione fa muovere l’uomo, ma se ci si muove senza pensare non si va da nessuna parte. Da qui nasce l’azione, ragionata, segnata anche da piccoli passi, Non si può avere una rotta se non si sa bene qual è il porto d’arrivo. Non ci si può muovere a zonzo.

Oltre all’aiuto materiale, Progetto Arca si preoccupa anche di accompagnare le persone fragili verso una ripresa della vita. Può spiegarcelo attraverso una storia tra le tante che avrà sicuramente nel cuore?

Proprio in questi giorni a Mirasole parlavo con una famiglia, da noi accolta due anni fa perché aveva perso tutto: il lavoro, i soldi, la speranza. Adesso ha ripreso fiducia, la gioia di vivere, ha ottenuto la casa popolare, ha ritrovato un lavoro. Addirittura questo accompagnamento ha fatto sì che tutto questo tracimasse, a tal punto che il padre mi ha detto che vuole venire a fare il volontario all’Arca, perché ha toccato con mano quanta forza è stata trasmessa: “Avevamo le gambe rotte e voi ci avete aiutati a rimetterci in piedi”. Adesso stanno correndo, vogliono trasmettere ad altri quello che hanno ricevuto. Per me è una gioia enorme. Ed è una delle lezioni che ho imparato in questi anni di volontariato: le persone che partono dal basso sono le più felici, perché non hanno molto, ma lo apprezzano e lo condividono. E’ come un’acqua viva che si rigenera e zampilla.

Per le persone fragili e in difficoltà il lockdown è stata un’emergenza nell’emergenza, che li ha resi ancora più vulnerabili. Lei ha scritto ai suoi operatori e volontari: “è stato come una notte lunga 60 giorni” e “Progetto Arca non poteva stare a guardare”. Come avete risposto a questa chiusura imposta e prolungata?

Da un giorno all’altro le mense per i poveri hanno chiuso perché non potevano esserci assembramenti. Da un giorno all’altro migliaia di persone non hanno più avuto da mangiare. Da un giorno all’altro sono stati chiusi bagni pubblici e docce pubbliche. L’ordine era stare in casa, ma per chi una casa non ce l’ha era impossibile. I senza fissa dimora si sono ritrovati all’improvviso senza cibo, senza relazioni. A quel punto ci siamo interrogati: o chiudiamo tutto oppure ci rigeneriamo.

Immagino che la risposta sia stata la seconda opzione…

Esatto. Visto che potevano stare in strada medici e infermieri, abbiamo chiesto loro di attivarsi anche di sera e abbiamo coinvolti altri operatori perché le Unità di strada da quattro che erano alla settimana sono diventate 11, perché i aumentavano ogni giorno di più. Abbiamo incontrato persone senza dimora che soffrivano davvero la fame, c’era chi non mangiava da ben quattro-cinque giorni. E come risposta alla mancanza di cibo abbiamo portato la cena calda e un sacchetto con la colazione e il pranzo per il giorno successivo.

Tradotto in numeri?

Nel periodo del lockdown, a Milano, abbiamo attivato ogni giorno due Unità di strada, così abbiamo aiutato 240 senza dimora al giorno, 120 per Unità di strada. Nei nostri centri, poi, ospitiamo, offrendo un letto dove possono dormire, un migliaio di senzatetto.

Avete distribuito anche materiale sanitario?

Per far fronte all’emergenza coronavirus tra i più fragili, che sono i più esposti al rischio di contagio e non hanno nessuna possibilità di proteggersi, abbiamo acquistato in corsa più di 50mila presidi sanitari per dotare le strutture di accoglienza e le Unità di Strada nelle città italiane – Milano, Roma e Napoli – in cui il Progetto Arca porta il suo sostegno: 10.000 flaconcini di gel disinfettante, 15.200 mascherine usa e getta, 22.000 guanti monouso, 300 camici monouso, 285 tute monouso, 236 litri di disinfettante. E abbiamo distribuito anche materiale per l’igiene personale. Ma non c’è stata solo l’assistenza.

Che cosa avete fatto in più?

Abbiamo svolto una funzione di informazione, comunicazione e sensibilizzazione su che cosa fosse il Covid-19 a una fetta di popolazione che non segue i mass media e che di botto si è ritrovata con strade deserte e negozi chiusi.

Ha mai pensato di non farcela?

No. Noi conosciamo i nostri limiti e restiamo sempre dentro una cornice. Una volta riempita, sappiamo che possiamo ingrandirla. Non ci fermiamo mai né ci diamo un limite irraggiungibile, ma sempre un rilancio. Di fronte a questa sfida, nuova e drammatica, era più semplice sfilarsi, ma non fa parte del Dna di Progetto Arca.

Che cosa vi ha insegnato questo periodo di lockdown?

Dare un pasto caldo alle persone in strada è stato un passaggio fondamentale, ci ha aiutato a capire che possiamo trasformare la nostra azione. Infatti abbiamo acquistato una cucina mobile e questo servizio continuerà a essere offerto anche dopo questa emergenza.

La vostra mission è: “ciò che incontriamo, accogliamo”. Cosa significa oggi incontrare e accogliere?

Nell’idea della prossimità vuol dire dedicarsi a ciò che arriva dalla realtà, che è ciò che ci svela e ci sveglia. Il 95% dei nostri interventi vengono svolti in Lombardia, il povero che ci raggiunge è la sollecitazione a noi più vicina che ci richiama alla risposta più urgente. Questo è un bene, ma anche una domanda. Così, nei mesi del lockdown, attraverso l’opera del nostro social market in Campania, siamo venuti in contatto con sacche di povertà all’ennesima potenza. E questo ci ha sollecitati ad aprirne altri tre, il mese scorso, in Sicilia, Calabria e Puglia come sostegno alimentare. Ma il mondo è grande, abbiamo attivato piccoli interventi anche in Medio Oriente e in Africa.

Molti si domandano: da questo lockdown usciremo migliori o peggiori? Visto che abbiamo dovuto chiuderci in casa, si sono chiusi anche i cuori?

No, i cuori non si sono chiusi, ma alcune menti sì. Ci sono due tipi di persone: quelli che vogliono ricominciare e ritornare allo stato precedente e quelli che invece vogliono rinnovare, rigenerare tutto. Solo i secondi escono da questa prova con un insegnamento vero.

In tempi di lockdown e di tagli al welfare, anche il non profit è stato messo a dura prova. E’ stato così anche per Fondazione Progetto Arca?

A dire il vero, economicamente non siamo stati messi in ginocchio, perché la nostra raccolta fondi ha zampillato di generosità. I nostri sostenitori hanno capito il nostro impegno e ci hanno premiato. Se ci fossimo chiusi in noi stessi a piangere sulla difficile situazione, non avremmo avuto le risposte, tante e inaspettate, che abbiamo ricevuto, anche dalla Grecia, dall’Inghilterra, da molte fondazioni private.

Come si può aiutare il Terzo settore?

Il vero aiuto lo si dà facendo uscire le persone dall’indigenza, altrimenti il welfare non potrà reggere, perché sono più le persone che entrano in povertà di quelle che escono. Giusto concentrarsi sull’assistenza, ma bisogna soprattutto dare casa e lavoro. Non è semplice, non basta schioccare le dita per dare casa e lavoro ai 55mila senza dimora che vivono in Italia, ma questo deve essere l’impegno prioritario.

Siccome la carità è instancabile, “nuove idee sono all’orizzonte per affrontare questo nuovo mondo, diverso e complesso”. A quali nuove sfide sta pensando?

Papa Francesco ricorda sempre: quando fate la carità, non limitatevi a donare i soldi, ma toccate la persona che aiutate. Tutto ciò che facciamo deve avere una relazione, implica il riconoscimento dell’altro nella sua dignità di uomo. E allora, in questo momento di passaggio, la nostra nuova sfida sarà proprio togliere la vecchia cornice, il nostro vecchio quadro. Non so ancora quale sarà la nuova cornice. Ma il chiodo cui appenderla c’è già: noi continueremo ad accogliere chi incontreremo sulla nostra strada.

(Marco Biscella)