Mario Draghi ieri ha tenuto un discorso alla conferenza di alto livello sul pilastro europeo dei diritti sociali organizzata dalla presidenza di turno Ue del Belgio. L’ex presidente del Consiglio ha dichiarato di voler proporre un “cambiamento radicale” dell’Unione Europea. Il punto di partenza è l’analisi sui cambiamenti che hanno messo fuorigioco il modello europeo: “In un ambiente internazionale favorevole, abbiamo confidato nella parità di condizioni globale e nell’ordine internazionale basato su regole, aspettandoci che altri facessero lo stesso. Ma ora il mondo sta cambiando rapidamente e ci ha colto di sorpresa. Ancora più importante, altre regioni non rispettano più le regole e stanno elaborando attivamente politiche per migliorare la loro posizione competitiva”.



A non rispettare più le regole del vecchio mondo sono la Cina, che “mira a catturare e internalizzare tutte le parti della catena di approvvigionamento di tecnologie verdi e avanzate”, minacciando di indebolire le industrie europee, e gli Stati Uniti, che “stanno utilizzando una politica industriale su larga scala per attrarre capacità manifatturiere nazionali di alto valore all’interno dei propri confini, compresa quella delle aziende europee, mentre utilizzano il protezionismo per escludere i concorrenti e dispiegano il proprio potere geopolitico per riorientare e proteggere catene di approvvigionamento”.



Se queste sono le condizioni, allora, prosegue Draghi, “manca una strategia su come proteggere le nostre industrie tradizionali da un terreno di gioco globale ineguale causato da asimmetrie nelle normative, nei sussidi e nelle politiche commerciali”. Per questo occorre “realizzare la trasformazione dell’intera economia europea. Dobbiamo poter contare su sistemi energetici decarbonizzati e indipendenti; un sistema di difesa integrato e adeguato basato sull’Ue; manifattura nazionale nei settori più innovativi e in rapida crescita; e una posizione di leadership nel deep-tech e nel digitale”.



È pacifico che il contesto internazionale sia cambiato e che la globalizzazione in cui ha prosperato il modello europeo è finita. È altrettanto pacifico che il conflitto con la Russia ha privato l’industria europea della fonte energetica più economica. L’Europa deve reinventarsi, ma si autoimpone di farlo all’interno dei binari della rivoluzione green sulla cui tecnologia però la Cina ha una posizione dominante. L’industria europea dei pannelli solari, per esempio, non può competere con quella cinese e lo stesso si può dire per l’auto elettrica. Questo non è un dettaglio. Se le regole sono cambiate e l’Europa deve reagire per riportare le sue industrie in una condizione di parità, allora occorre intervenire – questo è il punto – o imponendo dazi o con sussidi pubblici.

Sulla carta va tutto bene, ma nella realtà ogni intervento in questo senso provocherà reazioni uguali e contrarie; della Cina magari sui beni di lusso, o degli Stati Uniti sulle forniture di gas. L’Europa per ricostruire e presidiare le catene di fornitura fuori dall’Europa, sui materiali critici, troverà ad attenderla gli altri attori. Non solo: ricostruire un’industria europea green e “autarchica” implica un costo colossale in termini di investimento e per i cittadini.

Oggi gli italiani mettono sui tetti pannelli solari cinesi a un certo costo; non si sa se quelli europei saranno mai ugualmente competitivi, ma certamente non lo saranno per molti anni. Ingranare le marce di un cambiamento radicale significa imporre ai cittadini europei costi molto più alti in uno scenario – e ciò è importantissimo – in cui né Cina, né Stati Uniti si impongono neanche lontanamente gli stessi vincoli europei in termini di velocità della transizione. Non parliamo poi della potenza industriale emergente, l’India, che spinge la sua industrializzazione con il gas e il petrolio russi. Il nuovo “protagonismo” europeo espone un numero ampio di settori alle ritorsioni cinesi o americane; due Paesi che guardano alle scelte di politica industriale europea in modo totalmente disincantato.

C’è poi una seconda questione. Ricostruire da zero un’intera industria “green” richiede investimenti colossali. È probabilmente per questo che Draghi fa un appello ai risparmi europei “molto elevati”. Non è chiaro però per quali tassi gli europei dovrebbero decidere di prestare i propri soldi in un programma che è chiaramente inflattivo. È inflattivo da ogni punto lo si guardi in generale e in particolare dall’Europa, che vuole bloccare le importazioni da Paesi che hanno produzioni più competitive, che non ha né risorse naturali, né proiezione geopolitica per difendere le sue catene di fornitura e soprattutto che deve ricreare una nuova industria. Il prezzo del rame, per fare uno tra i tantissimi esempi dei metalli necessari alla transizione, è vicino ai massimi di sempre.

Il rischio che il programma di Draghi sfori qualsiasi budget è concreto; è altrettanto concreto il pericolo che gli europei si accorgano di questo dettaglio a cose fatte e magari dopo aver impegnato i propri risparmi. L’Europa si appresta a sfidare Cina e Stati Uniti sul loro terreno chiusa nell’angolo autoimposto di una nuova rivoluzione industriale i cui costi spaventano gli altri. Perseguirla, costi quel che costi, scommettendo su un programma di sussidi e dazi è una strada molto, molto rischiosa.

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