Oggi parliamo di cervelli. Un tema in generale complesso che nel nostro Paese diventa anche “imbarazzante” per una serie di ragioni. Soffriamo storicamente di quella che viene definita la “fuga di cervelli” (personalmente credo che il problema ha l’aggravante che in alcuni casi ci restano i corpi); quelli che non scappano sono mediamente demotivati in quanto sottopagati e non di rado relegati a ruoli secondari; in questi giorni scopriamo che anche in tema di “cervelli artificiali” siamo in ritardo e si è reso necessario il “Programma Strategico per l’Intelligenza Artificiale 2022-2024” prodotto da tre ministeri e approvato dal Consiglio dei ministri. 



Sul piatto si vogliono mettere una ventina di miliardi di euro del Pnrr per “colmare il ritardo nello sviluppo e nell’adozione di soluzioni innovative in questo ambito tecnologico, dando nuovo impulso alla transizione digitale del nostro sistema produttivo”, come ha detto Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico. 



Premesso che, occupandomi di cyber security, oltre alle fantastiche opportunità offerte dagli algoritmi intelligenti, vedo anche dei rischi straordinari, ho la netta sensazione che quello dei cervelli umani sia il vero problema. Il documento elenca sei obiettivi che dipendono tutti essenzialmente da quello che si trova al sesto posto ovvero “creare, trattenere ed attrarre ricercatori di IA in Italia”. Nei settori innovativi la ricerca è il pilastro su cui si fonda qualsiasi passaggio successivo e la possibilità di farla sul serio dipende soprattutto dal “chi”. 

Nel programma si legge come i possibili fondi arrivino dal Pnrr per 600 milioni, altri 150 dal Fondo della Scienza e 5 milioni dal Programma Rita Levi Montalcini. Considerando questi importi non destinati in esclusiva a tale settore, mi domando quanti ne resteranno. Quello che potrebbe accadere in assenza di una solida base di ricerca nazionale non è difficile da immaginare: in ultima analisi, le tecnologie di base resteranno dominio incontrastato dei soliti noti. 



La storia ha la tendenza a “fare rima” e se guardiamo al passato delle tecnologie dell’informazione possiamo fare la facile previsione che le fondamenta anche di questa evoluzione non parleranno italiano e saranno ben poco europee. Senza scomodare il passato remoto dell’informatica ci basta osservare cosa è accaduto al cloud computing i cui primi cinque operatori mondiali sono gli statunitensi Amazon, Microsoft, Google e IBM e il cinese AliBaba che detengono oltre il 70 per cento del mercato e soprattutto, di fatto, il 100 per cento delle tecnologie su cui il cloud si regge. 

Faccio fatica a pensare come potrebbe andare diversamente nell’ambito delle intelligenze artificiali, soprattutto sei i numeri sono quelli di cui sopra.

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