Per giustificare la natura labirintica del suo racconto e della struttura che lo sostiene, la regista Amanda Sthers – scrittrice che con Promises firma la sua quarta regia cinematografica – scomoda nientemeno che la Ricerca di Marcel Proust e l’Ulisse di James Joyce: è un segnale di ambizione sfrontata che apprezziamo, ma al tempo sembra mostrare una certa sfiducia per il proprio ruolo di narratrice.
Il film, tratto da un suo romanzo, racconta la storia di Alexander (Pierfrancesco Favino), un uomo diviso tra passato e presente così come lo è tra Italia e Inghilterra, che rovina la propria famiglia – moglie e una figlia – innamorandosi di Laura (Kelly Reilly), una gallerista che sta per sposarsi. Quella relazione spezza il flusso della sua vita, ma in qualche modo si ricollega al passato dell’uomo e al suo futuro.
Cervellotico all’apparenza, semplice nella sostanza, il copione della stessa Sthers ha proprio nella fusione tra passato e presente la sua ragione d’essere, cercando fin dal materiale del racconto di dare un tocco più moderno e contemporaneo – nonostante l’ambientazione anni ’80 – al melodramma familiare di stampo classico, chiedendo allo spettatore di credere a un colpo di fulmine illogico e imprevisto, come si faceva nei racconti d’epoca, ma al tempo stesso ampliandone le riflessioni narrative e psicologiche e dilatando i tempi drammaturgici.
Per fare questo Sthers osa, usa sfumature impreviste come il gotico (“L’Italia è la terra dei miei fantasmi”, dice Favino), manipola il tessuto temporale della storia a proprio piacimento, ma finisce per cedere spesso soprattutto in termini di stile e resa visiva: Promises fallisce soprattutto perché non riesce a costruire in termini cinematografici la passione che porta il protagonista a mettere in discussione la propria vita, non ne comunica il vigore, ma non sa nemmeno farne sentire la pulsione. La regista sembra voler elidere ogni momento caldo e vibrante e lasciarsi trascinare dalle minuzie più o meno interiori e cerebrali.
Potrebbe essere una scelta, ma è una scelta che non comunica – oltre a sprecare la carica di Reilly come attrice -, che lascia lo spettatore in balia di finali che si rincorrono e faticano a lasciare andare le emozioni, le idee di regia non sembrano al servizio di nulla, se non del modo di mettere in scena il tempo (a 100 anni di distanza dai romanzi citati e a 60 dal cinema di Alain Resnais), comunque inadeguato stando al trucco applicato sugli interpreti.
L’unico a uscirne a testa altissima è Andrea Laszlo De Simone, cantautore e compositore italiano, autore di una colonna sonora molto bella che dimostra come il passato e il presente possano convergere in un singolo gesto artistico (per esempio, la sua canzone Vivo) senza dover tirare in ballo i santi numi per darsi una patente di grandezza.
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