Mercoledì scorso gli agricoltori sono giunti a Melegnano, alle porte di Milano, e hanno bloccato alcuni accessi all’autostrada. Un gruppo agguerrito – e animato da parole d’ordine assai simili a quelle che corrono ormai per tutta l’Europa dell’UE – ha annunciato che darà vita a manifestazioni sempre più intensamente partecipate. L’Italia deve prepararsi a veder crescere la lotta degli agricoltori con un’intensità non prevista. Già per la settimana prossima si parla di trattori alle porte di Roma.
La ragione è semplice e immediatamente percepibile. La transizione ecologica eterodiretta ha i suoi costi immediati e sempre più pesanti, in un contesto in cui il problema diviene quello della stessa sopravvivenza dell’impresa agricola. Sì, l’impresa agricola, questa sconosciuta creatura non studiata dagli economisti (eppure noi italiani abbiamo fatto da scuola al mondo con Arrigo Serpieri e la Scuola di Portici!), non raccontata dagli agronomi e rappresentata in forme che sono divisive quanto mai, in una segmentazione dei corpi intermedi che si aggregano a fatica intorno ai due grandi tronconi storici della Confindustria, da un lato, e della Coldiretti, dall’altro.
Il problema è che la centralizzazione eurocratica dell’economia industriale ha sempre convissuto con una ripartizione delle risorse destinate all’agricoltura che hanno avuto nella PAC – la Politica agricola europea – una sorta di compensazione altalenante tra le nazioni dell’Europa continentale del Nord e quelle dell’Europa del Sud, in una lunga storia di irregimentazione delle quote produttive, volta a volta assegnate alle imprese o alle famiglie in un negoziato continuo e condotto nell’oscurità della maggioranza dei cittadini consumatori e spesso degli stessi agricoltori piccoli e medi.
La stessa configurazione delle proprietà agricole e il loro inserimento più meno marcato nella logica della grande distribuzione ha contrassegnato la storia economica dell’agricoltura europea, nelle forme sempre più vincolanti e verticalizzate di una politica di sussidi che, più che sostenere, ha irrigidito la produzione e i redditi e incardinato le imprese in regole che ne hanno indebolito la reattività.
Ora i nodi vengono al pettine.
Sono giunti gli shock esogeni prima della pandemia e ora della guerra imperialistica russa all’Ucraina. Guerra che non impedisce che, in un’economia regolamentata, all’improvviso, la produzione ucraina – delle terre forse più fertili e produttive al mondo – si riversi sulle campagne europee, francesi e tedesche in primis e naturalmente dei Paesi Bassi, che della PAC sono stati sempre i beneficiari, con quote sussidiarie sempre più consistenti di quelle assegnate alle nazioni dell’Europa del Sud.
Ora l’UE sta costruendo un’economia di guerra che presupporrebbe un impero con un esercito costituzionalmente legittimato e si trova, invece, al massimo, a poter dar vita a un coordinamento tra i produttori europei di armi in stretto collegamento condizionante con i grandi produttori Usa di armi e munizioni sofisticate.
Il mercato e la produzione di cannoni s’accompagna a quella del burro in forme caotiche e disordinate che sono tipiche di un insieme di nazioni unite tra di loro solo dalla tecnica di burocrati divenuti un ceto autoregolantesi e che regolano a loro volta i produttori e i consumatori nell’ombra o nella luce accecante di tecnicismi assurdi, utili solo a non far conoscere e comprendere.
La questione è che ora questo ceto autoregolato pensa di trasmutare – nuovi alchimisti da pietre filosofali – anche le quantità fisiche dei combustibili fossili necessari ancora quanto mai per la produzione agricola europea, non sapendo o fingendo di non sapere che, unitamente all’inflazione da carenza di offerta, questa politica fa aumentare i prezzi e cambia le funzioni di produzione delle imprese agricole, rovinandone i conti e sprofondandole nell’incertezza più di quanto già non faccia la natura e le sue traversie sempre più minacciose. La stessa natura, del resto, come le imprese, è minacciata da una carbonizzazione sempre più impetuosa.
Come ha ricordato Salvatore Carollo più volte, un primo movimento per diminuire tale carbonizzazione sarebbe migliorare l’affinazione delle produzioni di oil indispensabili per la stessa sopravvivenza delle imprese. Sempre Carollo ha ricordato che “i ‘sostegni all’agricoltura’ non sono ‘sussidi alle fonti fossili’… Solo un ambientalismo ideologico e superficiale per anni ha divulgato slogan fuorvianti che hanno finito con il creare una cultura devastante per i sistemi produttivi. La cura Timmermans ha spinto l’Europa verso la decrescita e la demolizione lenta ma progressiva del suo sistema produttivo… Si è pensato che bastasse scrivere delle date sul calendario per assumere che gli obiettivi fossero già raggiunti”.
Ma una politica realistica, fondata sulla negoziazione tra le parti, sulla codeterminazione tra gli attori e non sul predomino della “Burocrazia Celeste Ue” non pare possibile.
Avevo parlato del tremore che invade le stanze della Burocrazia Celeste: ora i palazzi dorati stanno tremando sotto la pressione dei trattori.
Assisteremo alla fine di una Burocrazia Celeste senza impero ma solo attorcigliata con i fili d’oro delle prebende di un sistema di trattati tra Stati che sono ancora pervasi – per nostra fortuna – dalla capacità di reazione e dalla creatività della lotta delle parti sociali. E gli agricoltori sono solo il primo avviso ai naviganti…
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