È esploso da qualche giorno il dibattito sul caro affitti degli alloggi universitari nelle principali città italiane. La decisione di una studentessa del Politecnico di Milano, seguita da quella di un numero crescente di studenti, di alloggiare in una semplice tenda da campeggio, trova spazio nelle prime pagine dei più diffusi quotidiani italiani. Per dare qualche numero di contesto, il canone medio mensile per stanza è pari a 810 euro a Milano, 630 a Roma, 580 a Venezia, 570 a Firenze e 530 a Bologna. Nelle altre principali città universitarie, difficilmente si scende sotto i 400 euro.
Il fenomeno non è nuovo, poiché il trend di crescita del costo degli affitti continua ormai da qualche anno. Che il limite di sopportazione sociale sarebbe stato raggiunto si sapeva, era solo questione di tempo. Il ritorno nelle aule universitarie dopo la pandemia, la rapida ripresa del turismo e l’inflazione hanno dato a questa spirale un’accelerazione insostenibile. La forza catalizzatrice e la detonazione mediatica che la “protesta delle tende” sta avendo suggeriscono che il tappo è saltato. Il limite è stato raggiunto, se non superato. Ritorna alla mente la famosa favola di Andersen I vestiti nuovi dell’imperatore, in cui l’imperatore senza vestiti sfila tra la folla adulante ostentando un vestito immaginario. Tutto sembra filare liscio, finché una bambina ha il coraggio di gridare “l’imperatore non ha niente addosso, l’imperatore è nudo!”. Allora tutta la folla si accoda a questo grido. Sembrava si attendesse la mossa coraggiosa di qualcuno, per unirsi nella denuncia di un fenomeno che da tempo era sotto gli occhi di molti.
Aldilà della simpatia che si può provare o meno per la decisione di questi studenti, ci sono alcuni elementi che credo sia utile valutare e trattenere. La necessità di rendere più accessibili gli affitti è fuori discussione, considerando anche il fatto che gli studenti, non percependo normalmente un salario, hanno un potere d’acquisto limitato e sono i più colpiti dall’aumento dei prezzi. Non mi soffermo dunque su questo aspetto, vorrei piuttosto offrire qualche spunto di riflessione a partire dallo slogan della protesta, “senza casa non c’è futuro”. Una formula che riassume in modo efficace ciò che sta al fondo di questa vicenda e che assume ancor più peso se si considerano l’insicurezza e l’incertezza sull’avvenire che accompagnano le giovani generazioni.
Trovo particolarmente interessante l’associazione tra casa e futuro, soprattutto per due elementi. Il primo è che, pur insicuri, questi giovani hanno a cuore il loro futuro e desiderano costruirsi un avvenire dignitoso. Almeno in alcuni di loro l’intraprendenza e la disponibilità al sacrificio non mancano, altrimenti non sarebbero disposti ad alloggiare in una tenda pur di continuare gli studi. Non mancano dunque il desiderio e la volontà di costruire, ma piuttosto un contesto che li valorizzi. Come ha sottolineato Enzo Risso in una recente intervista a questo quotidiano, chiedere a un giovane di sopportare spese simili, insieme alle precarie condizioni di lavoro, significa mettere un muro tra lui e le sue aspirazioni, professionali e familiari.
Il secondo aspetto che trovo interessante è che questi ragazzi riconoscono di avere bisogno di una casa non solo per non stare in mezzo alla strada, ma per poter costruirsi un futuro. Non credo che la loro battaglia sia solo per le mura domestiche, comunque necessarie, ma anche per un punto di stabilità di più ampio respiro, un contesto appunto, che permetta loro di crescere ed edificare su basi solide. Senza una casa, cioè senza un punto di stabilità concreto e presente, è impossibile avere speranza nel futuro. Anche questo sembrano chiedere e ricordarci “gli studenti delle tende”, oltre alla più immediata richiesta di avere a disposizione alloggi a condizioni più favorevoli.
Un intervento politico è necessario e qualcosa si sta muovendo. Il Pnrr ha stanziato 960 milioni per il rafforzamento dell’housing universitario, settore ancora molto debole se si pensa che in Italia solo il 4% degli studenti universitari ha accesso ad una residenza universitaria, contro il 10% della Germania, il 12% della Francia e il 24% del Regno Unito. Altre misure saranno discusse in questi giorni dal governo. In generale, sembra crescere la consapevolezza che il sostegno ai giovani è un investimento e non un costo, perché sostenerli significa favorire un percorso di sviluppo futuro per l’intero Paese. È un inizio positivo di risposta, ma non è solo alle istituzioni che questi giovani stanno chiedendo di sostenere il loro bisogno di stabilità e di affermazione.
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