Protestano per la eccessiva rigidità dei dettami ambientali dell’UE e per l’impatto che hanno sulle loro aziende, ma anche per l’aumento dei costi dell’energia dovuto ai conflitti che stanno creando incertezza sui mercati. Gli agricoltori che si sono mobilitati in Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda, però, hanno preso di mira soprattutto l’Unione Europea, la sua PAC, la Politica Agricola Comune e il Green Deal, il piano per un continente più sostenibile, che incide in modo pesante anche sulla vita delle aziende agricole.
L’UE, commenta Massimiliano Salini, di Forza Italia, eurodeputato del Partito popolare europeo, può correggere il tiro su questi punti senza rinunciare all’attenzione per l’ambiente, ma deve anche ripensare al suo ruolo nella politica mondiale, restando nella NATO ma in un contesto che metta al centro il Mediterraneo e i rapporti con l’Africa. Politica ed economia sono strettamente legate e senza una politica estera definita non si può influire sulle vicende che condizionano anche i mercati.
Uno dei motivi della protesta degli agricoltori in diversi Paesi europei è il peso che avrà il Green Deal dell’UE sulla conduzione delle loro imprese. Quali sono le ragioni di questo dissenso e come è possibile tenere conto, oltre che dei principi ambientali, anche delle esigenze delle aziende agricole?
All’origine della protesta c’è un incastro molto doloroso fra l’ambizione delle norme europee, soprattutto quelle a presidio della sostenibilità ambientale, e la congiuntura di mercato. Ci sono degli shock del mercato dovuti a fenomeni geopolitici che impattano in modo molto forte sulla valorizzazione delle materie prime, tra cui l’energia, e la loro commercializzazione: si crea un altissimo tasso di incertezza che per le imprese costituisce la minaccia maggiore. Ma c’è una responsabilità che va attribuita alle norme e una che va attribuita alle guerre, alle dinamiche non controllabili dal legislatore. E questo va detto con chiarezza agli agricoltori da parte delle associazioni di categoria: non bisogna avere la fretta di individuare un nemico.
Come ha influito negli ultimi anni la normativa europea sulle attività degli agricoltori?
Se guardiamo agli ultimi cinque anni, la preoccupazione del mondo agricolo è più che giustificata. E non perché ci sia una crescente ambizione sul versante ambientale. Quella è la cifra dell’UE da sempre: siamo il continente della sostenibilità. Che deve essere abbinata, però, alla competitività. Questo è il tema critico. Il difetto di questi anni, se consideriamo l’impianto del Farm to Fork anche nell’articolazione del Green Deal e della Nature Restoration Law, è che si perde di vista l’equilibrio fra competitività e sostenibilità. In Europa abbiamo performance ambientali molto alte e un’agricoltura (soprattutto quella lombarda) che si distingue nel mondo perché molto avanzata e innovativa, a volte molto spinta dal punto di vista della produttività: l’ettaro, grazie a un lungo percorso di ricerca, rende molto di più. Questa agricoltura capace di sfruttare al meglio la terra e i suoi prodotti non è stata tutelata. Hanno impegnato l’agricoltore a esasperare il livello di garanzia ambientale perdendo enormi possibilità in termini di presidio del mercato.
Concretamente quali sono stati gli effetti di questo modo di procedere?
Se nel momento in cui aumentano dell’80% gli agenti patogeni che mettono a repentaglio le coltivazioni, la normativa europea impone una riduzione del 50% dei prodotti fitosanitari, si rischia di mettere al palo le aziende. I fitofarmaci che impediscono il proliferare di questi agenti patogeni in realtà sono straordinariamente sicuri dal punto di vista delle verifiche e del loro impatto sulla sostenibilità e sulla compatibilità delle filiere produttive. È fuori luogo che un continente già così sostenibile abbia aggiunto un’ulteriore riduzione di questi prodotti.
C’è il rischio di forzare la mano sull’ambiente senza considerare anche altri aspetti del problema?
Faccio un altro esempio: un allevamento viene equiparato a una qualunque industria per le emissioni. Ed è vero, un allevamento di vacche emette CO2 in atmosfera. Ma bisogna verificare l’intero ciclo di vita connesso all’oggetto della verifica: nel caso di un’auto elettrica, ad esempio, occorre verificare come viene prodotta l’energia elettrica; si può avere la batteria, ma se l’energia per realizzarla è prodotta da una centrale a carbone, complessivamente quella macchina inquina. Lo stesso discorso vale per l’allevamento: è vero che produce emissioni, ma i prati stabili che servono ad alimentare le vacche stoccano anidride carbonica, secondo il fenomeno del carbon capture, tipico della fotosintesi. Bisogna tenere conto anche di questo. Una critica, questa, che non è stata accolta dalla Commissione UE. L’ambizione ambientale è corretta, ma se non si abbinano competitività e sostenibilità le imprese, agricole o industriali, chiuderanno, e i loro prodotti verranno realizzati dall’altra parte del mondo. Da un’azienda cinese, indiana o anche americana, molto meno sostenibile. E inquinando.
L’Europa, insomma, dovrebbe aggiustare il tiro su questi aspetti?
Certo. In alcuni casi siamo riusciti ad aggiustarlo, come sulla Nature Restoration Law. Molti interventi sono stati fatti, a mio parere non sufficienti. Bisogna partire dal contenuto reale della sfida che in primis è la tutela della libertà di impresa. Il tiro è correggibilissimo. La PAC mette a disposizione finanziamenti, ma pone condizioni ambientali al punto tale che crescono gli agricoltori che rinunciano a fare piani di sviluppo perché il livello di vincolo a cui li sottopone l’UE li scoraggia dal chiedere il finanziamento. Bisogna agire sia sulla PAC che sul Green Deal.
L’Unione Europea, quindi, può apportare dei correttivi alle modalità di attuazione della sua ambizione ambientale. Ma gli agricoltori si lamentano dell’aumento dei costi, dovuto alla crescita dei prezzi del gasolio, conseguenza delle turbolenze geopolitiche causate dalle guerre in Ucraina e Medio Oriente. L’UE deve agire anche in questa direzione?
Non c’è dubbio. La sfida per l’UE è anche comprendere il suo ruolo come potenza mondiale, il suo rapporto con gli scenari più critici, che politica estera e di difesa vuole sviluppare. In relazione alla difesa il grande tema oggi è la ridefinizione delle regole di ingaggio dell’Alleanza atlantica: l’appartenenza alla NATO è una certezza, ma ora le sfide non sono solo nella parte Nord del mondo, ma anche nel Sud, basti pensare a quello che sta succedendo in Medio Oriente e in Africa. Uno scenario che ha delle implicazioni per l’UE. Se l’Europa non diventa protagonista all’interno di una nuova NATO che assume come baricentro il Mediterraneo, come punto di contatto con il Sud del mondo, non potrà sognarsi di avere una politica estera e quindi neanche un esercito europeo. Senza questo percorso saranno danneggiati anche gli USA: la politica di disimpegno degli ultimi tre presidenti dagli scacchieri più critici, nel tempo toglierà protagonismo anche economico agli Stati Uniti.
(Paolo Rossetti)
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