È ancora difficile comprendere se le proteste degli agricoltori, in corso in tutta Europa, siano limitate a denunciare una generica riduzione dei redditi e a riprodurre una narrazione della PAC (Politica agricola comune) come politica dei burocrati. I motivi delle proteste non sono gli stessi dovunque, inoltre alcuni manifestanti hanno messo in atto metodi che non fanno un gran favore alle stesse ragioni del movimento. C’è altro da considerare, dunque, per comprendere come mai proprio ora, e in tutti i Paesi, si assista a tante manifestazioni.



Che alcune misure siano da rivedere non c’è dubbio. Pensiamo alla riduzione delle superfici produttive, all’obbligo di assicurare le macchine agricole non circolanti su strada, alla tassazione delle superfici a riposo, agli aumenti della tassazione sui redditi agrari per chi vive di agricoltura, oppure, in casa nostra, all’eliminazione dell’agevolazione Irpef per i redditi domenicali e agrari. Però il tema di fondo è l’avvicinarsi delle prossime elezioni europee, con cui si vorrebbe mettere mano alla PAC e al Green Deal formulato dal 2020.



Eppure la PAC non è semplice burocrazia, ma la prima vera politica comunitaria che ha contribuito alle fondamenta dell’Unione Europea. A questa sono dedicati quasi 300 miliardi di euro, oltre un terzo dell’intero bilancio comunitario 2023-2027, e 4 miliardi l’anno saranno riservati alle imprese di piccole dimensioni. È prevista poi l’istituzione di un fondo dedicato ad alleviare eventuali shock dei prezzi e le conseguenze delle calamità naturali. Nel 2023 ci risultano erogati 500 milioni di euro alle aziende più colpite dalla crisi. Aggiungiamo che in Italia il Governo ha incrementato da 5 a 8 miliardi le risorse del PNRR destinate al settore agricolo.



Dunque, il problema non può essere quello di chiedere più risorse: al massimo, nel chiedere diversi criteri per la loro assegnazione e snellimenti burocratici là dove è possibile. Ma le contestazioni vanno veicolate nel solco delle associazioni sindacali e della rappresentatività democratica: buttare giù le statue, incendiare le bandiere, bloccare le strade, o danneggiare le attività di qualche catena di ristorazione non risolve nulla, anzi danneggia i cittadini, i lavoratori e le imprese. Non a caso, si riscontra anche la presenza, all’interno dei movimenti attuali, di attivisti già noti per le campagne no-vax e no-green pass. Persone che con tutta probabilità non hanno mai lavorato in un campo o una serra, mai messo piede in un’azienda agricola. Bisogna evitare dunque che questi movimenti siano strumentalizzati in vista delle prossime elezioni in nome di un populismo che non fa bene a nessuno.

Se poi l’obiettivo è mettere in contrapposizione agricoltura e ambiente, o sostenibilità sociale e profitti, allora il problema è ben più serio. Perché un’agricoltura virtuosa, capace di garantire cibo e sicurezza alimentare, di produrre ricchezza e redditi dignitosi per i lavoratori, nel rispetto dell’ambiente e delle regole della reciprocità commerciale internazionale, non può essere una chimera. È un obiettivo da realizzare nell’interesse di tutta la collettività. Ecco perché serve un impegno più concreto, da parte di tutti i Paesi membri, anche per la piena attuazione delle nuove regole. Compresa la condizionalità sociale, che dopo tanti anni di battaglie è stata inserita nella nuova PAC per evitare che chi non applica i contratti e non rispetta i dipendenti possa usufruire dei fondi pubblici.

La condizionalità sociale è una conquista basilare. L’Italia è tra i Paesi che per primi hanno voluto attuarla, dal 2023, e questo è un fatto molto positivo. Ora andrà applicata anche dagli altri Paesi e dal 2025 dovranno farlo tutti gli Stati membri, con l’obiettivo di disincentivare lavoro nero e sfruttamento.

Ma l’opinione pubblica non sembra molto attenta a questo tema. Ci si scandalizza, giustamente, se in un’azienda agricola non si cura il benessere animale o la tutela ambientale, molto meno se a mancare è il rispetto dei lavoratori. Anche secondo Eurobarometro, per i cittadini europei la responsabilità degli agricoltori è anzitutto quella di fornire cibo sano, sostenibile, di qualità; al secondo posto si chiede la garanzia del benessere animale. Questo vuol dire che serve uno sforzo in più anche sul piano informativo: bisogna che tutti siano più sensibili anche verso la sostenibilità sociale, non solo quella ambientale ed economica, rivolgendo più centralità alla persona e attenzione al lavoro, alle buone pratiche, alla valorizzazione delle attività produttive anche come cura e presidio del territorio. Un’altra sfida, è quella di fare pressione sul mondo delle imprese: la condizionalità sociale rappresenta una conquista per tutto il sistema produttivo, perché può spingere le aziende a investire sulla qualità, sulla concorrenza leale, sulla legalità.

Dunque la PAC, con le sue implicazioni sociali, ambientali ed economiche, andrà migliorata, non peggiorata. Ecco perché serve più dialogo sociale, maggiore partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese, più coinvolgimento dei sindacati dei lavoratori e delle associazioni dei produttori nei processi decisionali. Perché per costruire proposte efficaci occorre passare per i negoziati istituzionali, rispettando le scelte democraticamente messe in campo dai Governi e dal Parlamento europeo. Ci auguriamo che le mobilitazioni di questi giorni non spingano in altra direzione.

Va apprezzata da questo punto di vista la scelta della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen di avviare subito un ulteriore spazio di confronto, il “Dialogo strategico sul futuro dell’agricoltura”, per discutere i modi e tempi di attuazione delle norme. Al Consiglio europeo straordinario svolto ieri è stata proposta dalla Commissione di consentire agli agricoltori di avvalersi, per il 2024, di deroghe alle norme della PAC che obbligano a mantenere alcuni terreni non produttivi. Una proposta che sarà votata in una riunione del Comitato di gestione. Previsti inoltre alcuni limiti alle importazioni di zucchero, uova, polli dall’Ucraina. Sarebbe assai grave se tra le richieste dei produttori ci fosse anche quella di sospendere la condizionalità sociale. Perché allora a mobilitarsi sarebbero i lavoratori e le lavoratrici.

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