Continuano le proteste in Cina contro la politica “zero Covid” imposta da Xi Jinping e dal Partito comunista cinese. Le manifestazioni di dissenso, con le persone che alzano fogli bianchi per sfuggire alle strette maglie della censura governativa, hanno toccato anche diverse grandi città: Pechino, Wuhan, Nanchino, Canton, Shanghai. Nella capitale si sono mobilitati gli studenti dell’Università Tsinghua, l’ateneo che da decenni forma la classe dirigente del Paese, mentre a Shanghai, teatro di violenti scontri, centinaia di persone hanno gridato “Dimettiti, Xi Jinping! Abbasso il Partito comunista!”.



Le rivolte sembrano aver ottenuto un primo parziale risultato: a Urumqi, capitale della provincia nord-occidentale dello Xinjiang, dove la folla è scesa in piazza in seguito alla morte di dieci persone confinate per il lockdown in un palazzo in fiamme, sono state allentate diverse restrizioni anti-Covid. Ma il timore, suscitato anche dalle immagini del reporter britannico della Bbc picchiato e arrestato, è che si possa giungere a una repressione come quella di Tienanmen nel 1989. Ipotesi che Giuliano Noci, prorettore del Polo territoriale cinese del Politecnico di Milano, si sente al momento di escludere: “sarebbe controproducente. Queste proteste rappresentano una sorta di prova del nove per il Pcc e per Xi Jinping. Vedremo se il regime avrà in sé gli anticorpi per uscire da una situazione che rischia di riprodurre eccessive deviazioni e visioni maoiste, ma di esito incerto. Già da molte settimane abbiamo rilevato le difficoltà della gente comune, che fa sempre più fatica a sopportare le restrizioni della politica zero Covid. Il sistema cinese è dal punto di vista sociale in apnea”.



Secondo lei è una protesta destinata a diffondersi in molte altre città della Cina?

Siamo di fronte a una situazione complessa. In Cina, da sempre, avvengono centinaia di proteste al giorno, ma sono proteste circoscritte, che riguardano problemi locali, senza rilievo nazionale. E vengono gestite sempre a livello locale, così scivolano velocemente nell’oblio.

In questo caso?

Da giovedì scorso il fenomeno delle proteste è diventato nazionale. È partito da Zhengzhou, nella Cina interna, dove si trova la fabbrica degli iPhone, con le manifestazioni dei lavoratori, poi c’è stato il disastro di Urumqi, capitale dello Xinjiang, e si è esteso a Wuhan, Shanghai, Pechino, Chengdu. Per la leadership di Xi Jinping e per il Partito comunista cinese questo è il vero problema. Il rischio è che la protesta diventi sempre più diffusa e che la sua gestione diventi più complessa. In un recente editoriale sul Sole 24 Ore ho definito la situazione critica; oggi direi che è ancora più critica.



Perché?

Perché ai temi economici si aggiungono elementi di tenuta del sistema sociale. Negli ultimi 10 anni Xi Jinping ha portato progressivamente avanti una politica in base alla quale alla crescita economica venivano privilegiati aspetti valoriali – attenzione, valoriali per un regime comunista – quali la sicurezza e il controllo sociale, virando poi sul tema della cosiddetta “prosperità comune”. Fino a qualche giorno fa, pur di fronte a questi propositi di Xi, il sistema economico e di converso il sistema sociale su cui si regge l’accordo fra Pcc e società cinese aveva tenuto.

Un accordo che prevede?

Se tu ci dai da mangiare e noi miglioriamo la nostra vita, tutto va bene, tu, partito, ci governi e ci fai da papà.

E con i fatti di questi ultimi giorni questo patto tra il regime e i cittadini cinesi si è incrinato?

Queste proteste spingono Xi Jinping per la prima volta a dover fare i conti con un contesto nuovo: la proposta di quei valori hanno di fatto creato disagio sociale e disagio economico. Sono per lui una situazione molto complessa e una sfida molto difficile.

Senza vaccini occidentali, la Cina si è arroccata su una strategia zero Covid. Un fallimento?

Nel 2020 Xi Jinping ne ha fatto un baluardo nazionale, l’espressione della superiorità della Cina rispetto alle deboli e lasche società occidentali che stavano sperimentando un numero di morti per Covid fuori scala. La politica zero Covid, che è stata issata come uno stendardo e un baluardo, diventa difficile da rimuovere, a fronte dei venti tempestosi che si prospettano.

Quindi Xi non cambierà strategia?

Questo è il dilemma che il “grande timoniere” Xi deve sciogliere: si tratterà di trovare una soluzione che salvi capra e cavoli. Il sistema così com’è oggi non è sostenibile. Xi deve uscire da questa situazione.

Come?

Proprio perché sono proteste nazionali non credo che la situazione possa essere gestita con la forza. Il fronte è molto ampio, non è Hong Kong. Immagino che Xi cercherà di trovare una chiave narrativa, proponendo magari soluzioni che, di facciata, salvaguardino l’immagine del partito e che piano piano permettano poi di rivaccinare con vaccini non cinesi la popolazione.

Sarà una scelta non sbandierata ai quattro venti, per non dare all’Occidente e al mondo la sensazione di una Cina che ha sbagliato?

Qui in gioco c’è innanzitutto e soprattutto il rapporto tra il Partito comunista e la popolazione cinese, e il Pcc non si può esporre a un’umiliazione. Non ci sarà alcuna comunicazione ufficiale in tal senso: chiunque conosce la Cina sa che questo non potrà mai avvenire.

Quanto può preoccupare il regime il fatto che le proteste coinvolgano le università, compresa la Tsinghua di Pechino, l’ateneo che forma la classe dirigente del Paese?

Cito un solo dato: la disoccupazione giovanile in Cina è al 20% e non ci sono fortissime opportunità occupazionali per i giovani.

Queste proteste sono il segnale anche di un malcontento e di un disagio della classe media?

No. Le proteste segnalano un disagio rispetto alla politica di clausura varata dal governo di Xi. È chiaro che gli animi potrebbero essere ulteriormente esacerbati dal fatto che ci sono molti padri di famiglia che non vedono i loro figli trovare un lavoro.

Xi ha impostato la sua terza rielezione alla guida del partito e del paese puntando su parole chiave come “sogno cinese” o “prosperità comune”. Slogan che non fanno presa?

Il miracolo cinese si è retto sull’ottimismo che albergava in quella società: i genitori di qualsiasi estrazione sociale vedevano sempre un futuro molto migliore per i loro figli. Ma lo stesso Xi Jinping, nell’ultimo Plenum, ha riconosciuto che la situazione sta cambiando, che i cinesi devono essere meno ottimisti sul futuro. Dunque, in questo momento, il malcontento economico non è ancora la determinante principale che spinge a scendere in piazza, però potrebbe diventarne il carburante, che va ad alimentare la protesta. E se si innesta un circolo vizioso, in cui il partito prosegue con i lockdown duri, l’economia rallenta, la disoccupazione cresce, lo scenario può diventare preoccupante.

A Shanghai i manifestanti hanno gridato contro Xi Jinping e il Pcc. Pechino potrebbe presto reagire alla sua maniera se dovesse ritenere minacciato il suo potere? Queste rivolte possono sfociare in una nuova Tienanmen?

La vedo complessa: non abbiamo a che fare con una rivolta di studenti o di un movimento intellettuale, abbiamo a che fare con uno stato di fibrillazione di tutti gli strati della società, dagli operai di Zhengzhou ai musulmani dello Xinjiang, fino alle persone benestanti di Shanghai. Un fenomeno né geograficamente né socialmente localizzato, ma pervasivo. E nella sua pervasività reazioni alla Tienanmen sarebbero controproducenti e probabilmente non sortirebbero risultati. Forse anche all’interno del Pcc il dibattito è più acceso di quel che ci immaginiamo.

Ma solo poche settimane fa Xi Jinping ha visto rafforzati come non mai il suo dominio e il suo ruolo. Non è così? Dietro la facciata si intravvedono delle crepe?

È vero che dall’ultimo Plenum è uscito come straordinario e unico vincitore, però dentro il Pcc c’è un’ala più riformista, rappresentata più che dall’ormai anziano Hu Jintao soprattutto dal premier Li Keqiang. Dovessero cambiare le cose, quest’ala potrebbe prendere vigore. Nelle segrete stanze del Pcc si discute e si discute molto: adesso apparentemente la situazione sembra mostrare un’inequivocabile solidità, perché il Politburo è composto da persone assolutamente fedeli a Xi, ma fra i 90 milioni di iscritti al Pcc non tutti sono fedelissimi.

Insomma, per la Cina può essere un passaggio cruciale?

Queste proteste rappresentano una sorta di prova del nove per il Pcc e per Xi Jinping. Una grande prova di maturità. Vedremo se il regime avrà in sé gli anticorpi per uscire da una situazione che rischia di riprodurre eccessive deviazioni e visioni maoiste, dagli esiti però incerti.

E se Pechino dimostrerà di non avere questi anticorpi?

Mi sento di rispondere così: Mala tempora currunt. E non solo per la Cina, ma anche per il resto del mondo, perché la Cina è la seconda potenza economica del pianeta. Dobbiamo sperare che il Pcc dimostri questa maturità: se la Cina si troverà ad affrontare un periodo di forti tensioni sociali, andiamo incontro a una carenza generalizzata di prodotti. E un paese fortemente esportatore come l’Italia ne subirebbe pesanti ripercussioni.

Autorità e media cinesi dicono che c’è qualcuno che soffia sul fuoco dall’esterno. Che ruolo gioca in questa partita l’Occidente?

Dire così è un qualcosa che non sta né in cielo né in terra. Pensare che gli occidentali possano soffiare sul fuoco da Chengdu a Shanghai, è un po’ forte, se solo pensiamo che parliamo di un Paese da un miliardo e mezzo di abitanti.

(Marco Biscella)

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