Per Taiwan è solo un modo di Xi Jinping per distrarre l’attenzione dalla crisi economica cinese, per gli USA potrebbero essere le prove generali di una futura invasione. Di certo, schierando 22 aerei e 5 navi intorno all’isola, le forze armate di Pechino hanno fatto la voce un po’ più grossa del solito. L’invasione, nonostante tutto, non sarebbe dietro l’angolo, ma secondo alcuni analisti cinesi, osserva Massimo Introvigne, sociologo, fondatore del Cesnur e del sito Bitter Winter, in occasione delle elezioni americane potrebbe aprirsi una finestra utile per portare l’attacco che il loro presidente prevede da sempre. Se dovesse vincere Trump, infatti, potrebbe anche decidere di non venire in soccorso dei taiwanesi, ma se Trump venisse sconfitto, l’America potrebbe cadere nel caos delle contestazioni, lasciando una sorta di vuoto di potere che permetterebbe alla Cina di agire.



La Cina continua a fare pressione su Taiwan, stavolta con un’esercitazione imponente. La guerra è alle porte?

Mi sembra che ci siano due diverse percezioni: all’interno di Taiwan non c’è una preoccupazione eccessiva, collegano questa iniziativa più a problematiche interne cinesi e alla necessità di Xi Jinping di distrarre l’attenzione dai dati economici non favorevoli, mettendo in primo piano la questione della riunificazione con l’isola. La maggior parte dei politici e dell’opinione pubblica non pensa che sia un preavviso di invasione. Invece, la percezione negli USA e altrove è diversa: lo studio del tipo di operazione militare la fa percepire non come presagio di un’invasione imminente, ma come la prova generale di una possibile invasione futura.



La crisi economica che sta attraversando la Cina, però, non dovrebbe indurla a soprassedere su qualsiasi sforzo bellico?

In realtà, è il contrario. Le avventure militari spesso sono un’occasione per distrarre l’opinione pubblica da crisi economiche. Se si tratta di prove di un’invasione, diversi analisti cinesi si aspettano possibili finestre di opportunità dopo le elezioni americane. Trump è imprevedibile: usa una retorica anticinese, ma anche isolazionista. Se dovesse vincere, sarebbe difficile immaginare che mandi delle truppe a difendere Taiwan. Se perde, dicono sempre gli analisti cinesi, è ancora meglio, perché potrebbe seguire un periodo di tumulti e scontri popolari, rispetto ai quali il 6 gennaio sembrerebbe un episodio di modesta entità. Ci sarebbe, quindi, una finestra in cui gli USA non avrebbero l’autorità per reagire tempestivamente o prendere decisioni in poche ore.



Per gli USA però sarebbe il terzo fronte di guerra dopo Ucraina e Medio Oriente. Sarebbero in difficoltà a gestirlo?

Sarebbero in difficoltà anche se non intervenissero, perché perderebbero la credibilità regionale rispetto a Giappone e Filippine. Gli altri Paesi potrebbero pensare che le promesse di assistenza degli Stati Uniti non valgano molto. Gli USA perderebbero lo status di potenza del Pacifico, che forse sta a cuore a Trump più dell’Atlantico. L’attuale candidato repubblicano resta comunque difficile da decifrare per i cinesi: non ha mai usato una retorica antirussa, ma usa quella anticinese. Dall’altro lato, la retorica isolazionista lo porta a dire che i soldi vanno utilizzati per ridurre le tasse agli americani, non per le spese militari e le operazioni belliche. Quale delle due retoriche prevarrebbe non lo sa nessuno.

Per la questione Taiwan c’è una soluzione diversa rispetto all’invasione?

Non c’è più. C’era fino alla legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong, nel senso che adesso nessuno crede più all’idea cinese di uno stato e due sistemi. Era stata messa per iscritto con la Gran Bretagna, ma a Hong Kong è durata qualche anno e poi l’hanno liquidata. Nessuno crede più che, se venissero presi accordi analoghi a quelli, sarebbero rispettati.

Lo spiegamento di navi e aerei da parte di Xi ha fatto seguito al discorso del presidente taiwanese Lai, che ha scatenato la reazione della Cina popolare. Le sue parole sono state così pesanti?

È stato solo un pretesto: il discorso era molto moderato, apriva a un dialogo e alla disponibilità a operare nel concerto internazionale. Non era un discorso oltranzista. Ma l’unico discorso che Xi potrebbe accettare sarebbe quello in cui si annuncia la riunificazione con la Cina e la cessione della sovranità politica al Partito Comunista Cinese. Ma non succederà.

I taiwanesi non credono più a un ricongiungimento pacifico?

L’andamento della politica taiwanese ha avuto una svolta dopo quanto successo a Hong Kong. Prima si poteva credere che i cinesi fossero disponibili a onorare accordi di tipo federale, con Hong Kong che tornava alla Cina mantenendo le istituzioni democratiche britanniche. Dopo la violazione degli accordi con il Regno Unito, che ricadono sotto il diritto internazionale, nessuno ci crede più.

C’è anche qualche screzio tra Corea del Sud e Corea del Nord. Quest’ultima ha interrotto alcune vie di collegamento tra i due Paesi. Un’altra possibile guerra in Asia?

Un fronte che si può anche non aprire. C’è anche qui una retorica che va avanti da sempre, ma ci sono delle certezze: se la Corea del Sud venisse attaccata, il presidente USA interverrebbe per forza, i trattati internazionali e gli interessi USA glielo imporrebbero. Non è un punto interrogativo come Taiwan, che è pur sempre uno Stato che gli americani non riconoscono. Con la Corea del Sud ci sono trattati di difesa.

(Paolo Rossetti)

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