Avere una buona psicologia, orientata al proprio benessere e dunque anche al benessere di quelli che sono in relazione con noi, non ha debiti diretti con qualifiche e titoli di studio. Ne fa testimonianza la schiera dei laureati in psicologia o diplomati in psicoterapia che in questi giorni di emergenza sanitaria si sono scoperti facili prede dell’angoscia, né più né meno dei loro futuri pazienti.
Vista sotto questo profilo l’attuale pandemia è un buon – per non dire ottimo – test della qualità e della tenuta della formazione di uno psicologo, di uno psicoanalista o di uno psicoterapeuta, che come da qualche parte scrive Lacan, se non avessero “le spalle larghe con l’angoscia” a ben poco servirebbero. Il clima attuale, da tempesta perfetta, fornisce l’ambiente più idoneo per un’autovalutazione (diagnostica) dell’orientamento del proprio pensiero perché, detto in breve, la psicopatologia (cioè l’ammalarsi della mia buona psicologia) nasce sempre da una fuga. La fuga dal proprio principio di piacere (di convenienza, vantaggio, utilità eccetera) sotto la frusta di una minaccia angosciante, come nel caso della presa d’assalto di massa dei treni per il Sud – per poi finire in quarantena – di poche settimane fa.
Mentre tutto cospira alla chiusura e i divieti sociali si assommano a quelli interni delle persone, solo la buona psicologia di ciascuno trova lo slancio quotidiano di aprire i battenti, le tapparelle, le porte blindate e le saracinesche dell’io. Illuminante il pensiero di un paziente che mi chiama dall’estero e mi parla al telefono in una seduta da remoto: “Tempo fa, quando stavo 10/12 ore al computer o ai videogiochi, non mi sarei neppure accorto delle limitazioni sociali, l’isolamento era la mia normalità, ora lo trovo un’ingiustizia, una coercizione della mia libertà. Ma non mi fregano, mi sono messo in moto, sto già pensando a come fare smart working con qualche amico/amica”.
La buona psicologia non lascia, per così dire, raddoppia. Rendendosi accessibile attraverso la fibra inaugura l’era dell’analisi digitale o della “smart analysis”.
Non vanno più di moda i dibattiti sull’ortodossia, cattolica, marxista o psicoanalitica, cionondimeno la domanda sulla validità di tali nuove forme egualmente si pone. Non solo in relazione al perdurare della sospensione delle forme più tradizionali per l’emergenza sanitaria, ma soprattutto per il dopo, dal momento che l’attuale periodo lascerà un’eredità al successivo e tale eredità potrebbe non essere solo negativa. L’analisi ha sempre comportato movimento, pazienti che traversavano l’oceano per sdraiarsi sul divano di Freud, o che si trasferivano a Parigi per approfittare di quello di Lacan… Muoversi da un posto all’altro, lasciare la casa, mettersi in viaggio, fare armi e bagagli e partire per recarsi chissà dove, in un posto vicinolontano e lontanovicino. Partire alla scoperta della terra promessa, del “sé straniero”, dell’altro “più intimo a me di me stesso” che sono ancora io. Il movimento fisico da un posto all’altro, in macchina o in treno, sudando per cercare il parcheggio, arrancando nella selva degli impegni quotidiani per non fare ritardo o combattendo con lo sciopero dei mezzi, è la rappresentazione fisica del transfert.
Senza “spostamento effettivo/affettivo”, ovvero senza transfert, non c’è analisi. Sta qui il punto che concerne l’ortodossia dell’analisi, ovvero il punto che concerne la sua tenuta. “Cosa ne pensa delle sedute fatte da remoto?” ho chiesto a una paziente nel mentre di una pausa di silenzio nella seduta telefonica. “Vivo al telefono per lavoro – mi ha risposto – probabilmente sono avvantaggiata. Direi che funziona”. Bene, penso io. Ma perché funziona? Cosa si muove? Cosa si sposta?
Ricordarsi un appuntamento significa non averlo dimenticato. Chiamare un altro per aprirgli le porte del proprio pensiero e della propria esperienza significa aprire confini dell’io dopo aver siglato un trattato di libero commercio (per merci e persone) con un consimile eletto a rappresentante del mondo intero. In ogni seduta avviene lo spostamento di un certo quantitativo di materiale “psicoaffettivo” dal campo di esperienza di un soggetto al campo di esperienza di un altro. Viene così prodotta la materia prima che spetta all’analisi trasformare in buoni prodotti d’uso quotidiano. Fin tanto che ricordi, sogni, lapsus, sentimenti, moti affettivi, elaborazioni, dimenticanze e quant’altro sono portati in seduta con tale finalità, l’analisi può avvenire. In presenza o da remoto rappresenta solo una variante, su cui andrà fatto un bilancio senza particolari ansie.
Quando in una seduta il discorso tocca esplicitamente una situazione o una persona si usa dire, attraverso una metafora, che essa sia stata “portata in seduta”. Un po’ come se fosse presente, ovviamente senza esserci. Un paziente al quale capita di parlare del proprio gatto ricavandone spunti di riflessione, l’altra sera se lo è portato in seduta per davvero. Non ne sono stato informato, ma dall’altra parte del telefono lo sentivo miagolare. Cosa mai potrà eccepire un analista se il paziente porta il gatto in seduta? Con le sue sette vite e soprattutto con gli stivali, un gatto fa sempre comodo.