È recente la protesta di varie associazioni, tra cui l’Associazione culturale pediatri, verso la pubblicità di un’autovettura con cui un padre evidentemente benestante privilegia un bambino rispetto ai compagni per andare a scuola e che si conclude con la frase che spiega in sintesi che non tutti i genitori possono guidare una macchina del genere.



Proteste motivate e vibrate contro una pubblicità dal dubbio senso educativo. I promotori della protesta osservano che “esorta all’uso dell’auto, è classista e ancor peggio mina i diritti dei bambini, presentandoli come ‘pacchi’”. Al che qualcuno ha aperto gli occhi sul mondo dorato ma pericoloso della pubblicità.



Che dire della pubblicità dell’auto che semina terrore correndo a velocità sostenuta per Firenze? Che dire poi delle pubblicità che invitano a comprare junk food o sostanze ultra-iper-disinfettanti così da sobillare a un’incauta lotta contro i batteri innocui e all’uso di sostanze tensioattive inquinanti?

Certo non lo sapete, ma esiste un codice di autoregolamentazione della pubblicità. Non lo sapete perché c’è, ma non si vede, nel senso che dà indicazioni ultra-generiche e non entra nei fatti. Per esempio: “La comunicazione commerciale deve evitare ogni dichiarazione o rappresentazione che sia tale da indurre in errore i consumatori, anche per mezzo di omissioni, ambiguità o esagerazioni”. E così via con una breve serie di raccomandazioni tanto “buone” quanto generiche e perciò aggirabili.



Si noti che dal 1966, anno in cui fu emanata la prima versione, ormai siamo alla 63esima (!) versione del codice, il che ci fa ben capire in che acque travagliate si navighi in questo campo.

Eppure il problema è grave, perché la pubblicità è un Moloch pervasivo e potente, ultra-raffinato come le armi di precisione e multimilionario più di Telethon, tanto che mentre i programmi televisivi vent’anni fa ammettevano la pubblicità come forma di sussistenza, oggi è il contrario: oggi la televisione è pubblicità e i programmi televisivi (telefilm, documentari eccetera) sono strumenti per veicolarla. Ed è evidente che tutti i programmi che non possono attrarre che persone appassionate ma poche (commedie, documentari, informazione non urlata) sono finiti nel cestino.

È grave, perché la pubblicità esplicita e moderata è cosa buona e corretta, ma quella che invece si intrufola subdola, che non si differenzia volutamente e anzi si camuffa da spettacolo, quella che ti appare di colpo senza che la chiedi, quella che – come i banner pubblicitari sul web – ti nasconde il modo di farla sparire e ti salta davanti al naso mentre leggi un articolo di gossip o di ecologia… quella no, quella non è accettabile.

Pensate poi che il codice di autoregolamentazione dice che “La comunicazione commerciale non deve contenere un’esortazione diretta ai bambini affinché acquistino o sollecitino altre persone ad acquistare il prodotto pubblicizzato. L’impiego di bambini e adolescenti nella comunicazione deve evitare ogni abuso dei naturali sentimenti degli adulti per i più giovani”. E i bambini sono quelli più a rischio, ma non nascondiamoci dietro a un dito: tutti siamo a rischio. Ma di cosa?

Di pensare che tutta la vita è solo e soltanto commercio. Che tutto si può e si deve comprare, soprattutto le cose inutili, per la qual cosa la pubblicità è bravissima: non vi fa comprare ma vi fa venire voglia, vi invoglia, irretisce, soggioga, vi fa nascere bisogni inesistenti che solo comprando si soddisfano. E allora tutto sembra comprabile, tanto che le parole “felicità”, “adorare”, “perfetto”, “sogno” abbondano, si moltiplicano e sembrano a portata di carta di credito. Ma non è così.

Eppure, appena vene accorgete, ripartite a comprare perché siete diventati compulsivi, nemici di voi stessi, territorio di conquista dei pubblicitari. Ci viene da ricordare una vignetta del disegnatore Quino in cui un bambino con faccia desolata guarda l’amica con un oggetto in mano e le dice “ecco la felicità che ti vendono in Tv!”. E le pubblicità sono più attraenti degli spettacoli reali: già, perché sulla pubblicità investono miliardi, con studio sapiente di colori, delle voci e dei toni, dei testimonial e dei tempi per terrorizzare spaventare, attrarre, incuriosire, e infine soggiogare.

“Sono un pubblicitario: ebbene sì, inquino l’universo. Io sono quello che vi vende tutta quella m…a. Quello che vi fa sognare cose che non avrete mai. Cielo sempre blu, ragazze sempre belle, una felicità perfetta, ritoccata in Photoshop. Immagini leccate, musiche nel vento. Quando, a forza di risparmi, voi riuscirete a pagarvi l’auto dei vostri sogni, quella che ho lanciato nella mia ultima campagna, io l’avrò già fatta passare di moda. Sarò già tre tendenze più avanti, riuscendo così a farvi sentire sempre insoddisfatti. Il Glamour è il paese dove non si arriva mai. Io vi drogo di novità, e il vantaggio della novità è che non resta mai nuova. C’è sempre una novità più nuova che fa invecchiare la precedente. Farvi sbavare è la mia missione. Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma”. Così scrive paradossalmente Frederic Breidberg, pubblicitario francese, nel libro Lire 26.900 (Feltrinelli).

Ma è pubblicità onesta quella che fa spuntare banner all’improvviso mentre leggi una pagina di sport sul pc, e ti fa fare la caccia al tesoro per trovare l’X nascosta chissà dove da pigiare per farlo sparire? I banner improvvisi distraggono, rendono nervosi, rischiano di peggiorare il livello di attenzione nei giovanissimi. È pubblicità onesta quella che alza il volume rispetto alla trasmissione di fondo per farti fare un salto nella pennichella di dopopranzo e adescarti? È pura la pubblicità che parla ai bambini di genitori che si possono permettere una certa macchina e dei tuoi compagni sfigati che non se la possono permettere? È pubblicità accettabile quella che interrompe gli spettacoli improvvisamente o quella che mette in un angolino scritto – come richiesto dal codice – ma in piccolo che quel programma è pubblicitario? Ed è “pubblicità” onesta quella che dice all’inizio del programma di cucina che “nel programma saranno inseriti inserti pubblicitari” (e se non hai visto la sigla la raccomandazione te la perdi pure)?

Ma una società che non è più sociale non sa creare lavoro se non lavoro finto, cioè sovrastrutturale, basato su bisogni indotti e sull’acquisto di beni posizionali, cioè quelli che ti fanno credere di valere qualcosa per il solo fatto di averli. E per “girare” questo lavoro sovrastrutturale deve avviluppare la gente nelle spire di un bisogno creato dal nulla, e per questo serve la pubblicità. Facchini della pubblicità siamo diventati, portando su di noi tessuti e strumenti griffati, simboli di ditte o marchi di arredo. Quando inizieremo a svegliarci?

Era ovvio che i codici di regolamentazione diventassero inutili: la pubblicità non deve essere più di un tot percento della programmazione? Aumentiamo la programmazione a 24 ore su 24 anche se sappiamo che di notte molte reti non le vede proprio nessuno, ma così si garantiscono spazi pubblicitari di giorno. Deve essere chiaro cosa è pubblicità e cosa non lo è? Basta scrivere in piccolo da qualche parte “questa è pubblicità”, sapendo oltretutto che i minori fino a una certa età non sanno leggere!

Ecco, allora, l’appello a un serio codice di regolamentazione (non un aggiornamento in una 64esima [!] edizione, vi prego!) in cui sia esplicito:

a) un tetto alla pubblicità; b) l’impossibilità di banner a tradimento sul web; c) l’esplicito divieto di usare termini iperbolici (“prezzi bassissimi”, “felicità”, “paradisiaco”) e situazioni di cattivo gusto.

Che il legislatore e gli organi preposti (Antitrust e polizia postale) si costituiscano avvocati di noi tutti di fronte a un fenomeno grandioso, epocale e potenzialmente devastante, che attira e attrae, che danneggia se lasciato a se stesso, che richiede norme certe e, se sgarra, pene significative.