La Ricerca “Lavoro Pubblico 2023” presentata al ForumPA, oggetto di particolare attenzione, non contiene a ben vedere alcuna novità, ma è solo la conferma di un trend ormai pluriennale di continuo indebolimento della forza lavoro della Pubblica amministrazione.

Sebbene il numero complessivo dei dipendenti censiti dal rapporto al 2021 sia in leggera crescita, rispetto al 2020 (3.266.180 dipendenti contro 3.238.968), ciò è dovuto a un regresso della quantità di dipendenti a tempo indeterminato, mai così pochi dal 2001, come dimostra questo grafico estratto dalla ricerca:



Se, quindi, nel 2021 il totale dei dipendenti pubblici è di poco inferiore a quelli registrati nel 2011, ciò lo si deve a un evidente aumento del precariato. Si tratta di un cattivo segno. Non solo perché il testo unico sul lavoro pubblico (d.lgs 165/2001) impone il rapporto di lavoro a tempo indeterminato come ordinario metodo di copertura dei fabbisogni, relegando i lavori flessibili a comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale, ma perché vi potrebbe essere un’elusione proprio delle regole generali. In sostanza, alcune Pa, non potendo assumere a tempo indeterminato, aggirano i vincoli, espandendo oltre misura i contratti flessibili, contando poi sulla possibilità di “imbarcare” i precari a seguito di future stabilizzazioni disposte per legge.



In ogni caso, se in 20 anni il numero dei dipendenti pubblici si è abbassato così drasticamente, ciò non può essere frutto del solo caso.Si tratta, a ben vedere, invece di una scelta molto precisa adottata proprio all’inizio del secolo e maggiormente ancorata a partire dal 2010, quando divenne molto profonda, in Italia, la crisi dei subprime diffusasi due anni prima.

Il tutto è legato alle regole di finanza pubblica disposte dall’Ue. L’Italia risente da sempre di una bassa crescita del Pil, come noto, che rende molto difficile mantenere un quantitativo di dipendenti pubblici anche solo lontanamente paragonabile a quelli in servizio presso i principali Paesi competitori. Il seguente grafico, sempre estratto dalla ricerca, evidenzia il gap:



Il fatto è che l’Italia non può materialmente permettersi una spesa più alta di quanto già non sostenga per il lavoro pubblico e sin dai primi anni del 2000, infatti, ha adottato una serie di vincoli sia al turnover, sia alla contrattazione collettiva, che combinati tra loro hanno portato agli esiti ora sotto gli occhi di tutti. Nel 2010, poi, queste restrizioni vennero portate al parossismo dal d.l. 78/2010 che ha determinato 6 anni di stasi totale della contrattazione collettiva, ritenuta successivamente incostituzionale dalla sentenza della Consulta 178/2015.

Ma, nel 2010, in sostanza, si scelse di fare fronte alla formidabile crisi finanziaria di quegli anni non adottando le misure drastiche di Irlanda o Grecia, ove si giunse al licenziamento immediato di centinaia di migliaia di dipendenti pubblici. Si disposero blocchi molto forti alle assunzioni, ben consci che tra il 2019 e il 2024 circa 500.000 dipendenti pubblici sarebbero cessati dal servizio, così da giungere senza scossoni alla forte riduzione di dipendenti che, in effetti, adesso si riscontra.

La riforma fallimentare e disastrosa delle province ha tenuto bloccate le assunzioni per altri due anni fino al 2017 e solo dal 2019 le Pa possono assumere, pur tra moltissimi limiti e condizioni da rispettare, anche oltre il 100% del turnover, proprio quando, però, è scattata “quota 100”.

In sostanza, il bacino che contiene i dipendenti pubblici è come fosse bucato: il flusso dei nuovi assunti è inferiore al flusso del personale che esce. E difficilmente le cose potranno cambiare. Si ha un bel parlare del problema, certo esistente, della “attrattività” del lavoro pubblico, a sua volta attestato dalla ricerca, che conferma la riduzione drastica del numero dei candidati nei concorsi e le frequenti rinunce alle assunzioni.

Sta di fatto che il Documento di economia e finanza illustra un quadro a tinte fosche, dal quale si evince che ben difficilmente il trend si potrà modificare:

Come si nota, la spesa complessiva per il lavoro pubblico rimane praticamente in valori assoluti fino al 2026, ma si abbassa gradualmente dal 17% circa del totale al 16,8% del 2026.

Segno che o i contratti collettivi resteranno bloccati per un bel po’ (cosa che non aiuta certo a rendere “attrattiva” la Pa), oppure che proseguirà un flusso di uscita dei dipendenti pubblici molto maggiore di quello in entrata, per garantire un minimo di controllo a una voce di spesa tendenzialmente fissa e, quindi, molto incidente sul totale.

Il rischio, ovviamente, è che l’età media dei dipendenti pubblici, molto alta e superiore ai 50 anni, continui a crescere, insieme con l’obsolescenza delle competenze. In aggiunta, una riduzione ulteriore del numero dei dipendenti può ulteriormente incidere sulla qualità dei servizi: nella sanità e nei servizi sociali il problema, già latente, è risultato in tutta la sua gravità nel corso del pieno della pandemia.

L’inversione del trend potrebbe avvenire solo a patto di una crescita del Pil molto maggiore di quella prevista e con una riduzione altrettanto clamorosa della spesa per interessi e previdenziale.

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