Si dovrebbe dire «molto rumore per nulla». A Roma sono andate in scena due differenti produzioni dell’ultima opera di Puccini: Turandot. Una in versione di concerto «fuori abbonamento» all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia la sera del 12 marzo ed una al Teatro dell’Opera dal 22 al 31 marzo. A Berlino, dove operano tre principali teatri lirici, sovente due produzioni dello stesso titolo sono in scena contemporaneamente con allestimenti ed artisti differenti; nessuno parla di sfida, gara o altro.



Tanto più che le versioni musicali delle due produzioni sono diverse: all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia è stata presentata una (purtroppo) rara Turandot con il finale integrale di Franco Alfano (non quello tagliato, anzi sminuzzato, imposto da Arturo Toscanini ed entrato nella tradizione), mentre al Teatro dell’Opera è stata eseguita la versione che termina con la morte di Liù come volle Toscanini alla prima rappresentazione dell’opera il 25 aprile 1926 quasi un anno dopo la morte dell’autore, che la aveva lasciata incompiuta (pur con diversi appunti del duetto finale).



Le due edizioni hanno, poi, finalità differenti. Quella dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia (messa in scena con un cast stellare: sul podio Antonio Pappano, protagonisti Sondra Radvanosky, Ermonela Jaho, Jonas Kaufman, Michele Pertusi, Leonardo Cortelazzi, Gregory Bonfatti, Siyabonga Maqungo, Mattia Olivieri) è il frutto di numerosissime prove ed è mirata ad un CD della Warner. Quella del Teatro dell’Opera di Roma (sarebbe dovuta andare in scena due anni fa ma è stata posposta causa Covid-19) è imperniata su regia, scene, costumi, video dell’artista cinese (in esilio e sul cui capo pende a Pechino una condanna a morte) Ai Weiwei, considerato uno dei maggiori maestri del visivo contemporaneo. In buca, l’ucraina Oksana Lyniv. Protagonisti: Oksana Dyka, Antonio Di Matteo, Michael Fabiano, Francesca Dotto, Alessio Verna, Ernico Iviglia, Pietro Picone.



Il «taglio» dato alle due produzioni è differente. Quella dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia legge Turandot come una fiaba d’amore non realistica: l’opera veniva composta, quando la «generazione dell’ottanta», in polemica anche con Puccini, cercava nuove strade anti-narrative, a volte prive di coinvolgimento emotivo o psicologico. A Santa Cecilia, una lettura sontuosa dell’orchestra, dei cantanti, dei cori come, dato che ero infermo, ho potuto gustare anche alla radio. Una lettura affascinante quella del Teatro dell’Opera non solo per il visivo ma anche per il profondo contenuto politico.

Occorre fare una chiosa. Mussolini che si piccava di essere un musicista (e che era contornato da due schiere di compositori: i tradizionalisti guidati da Mascagni e gli innovatori capeggiati invece da Casella e da Malipiero) non solo finanziò il Teatro dell’Opera di Roma in modo che non fosse secondo a nessuno, lanciò il Festival di Musica Contemporanea di Venezia per contrapporsi a Salisburgo, ma desiderò ardentemente che venisse creata una «opera fascista». Non gli andò bene: La Favola del Figlio Cambiato di Malipiero su libretto di Pirandello ebbe una unica rappresentazione nel marzo 1934 per decisione del Capo del Governo in persona che trovò disdicevole che un atto avesse luogo in una casa di tolleranza.

Eppure, la «opera fascista», in quanto a ambientazione, clima, messaggio, esisteva già: l’incompiuta Turandot di Giacomo Puccini, tessera No 2 del Partito Nazionale Fascista di Lucca e Viareggio e primo compositore ad incontrare il Duce. Come accennato, le nuove tendenze musicali si prestavano a sperimentazione. In questo contesto, tra gli autori del passato venne riscoperto Carlo Gozzi con le sue «fiabe teatrali» che si giustapponevano alla commedia borghese di Goldoni. Gozzi, peraltro, era stato con La donna serpente (successivamente riproposta da Casella) fonte d’ispirazione della prima opera di Wagner, Die Fenn che in Italia è stata messa in scena solamente nel 1998 a Cagliari.

Dopo avere esaminato varie possibilità, Puccini (ed il suo librettista Giuseppe Adami) misero gli occhi su Turandot, che si svolge «a Pechino ai tempi delle fiabe» ma che è l’unico lavoro di Gozzi in cui non si fa ricorso alla magia. Un altro compositore italiano (ma residente in Germania) Ferruccio Busoni aveva lavorato sullo stesso testo – l’opera di Busoni, che aveva debuttato a Zurigo nel 1917 – viene raramente rappresentata in Italia; ebbi la fortuna di vederla al Filarmonico di Verona nell’aprile 1980. Esiste una terza Turandot. una grand opéra padano di Antonio Bazzini che debuttò alla Scala nel 1876 e venne presto dimenticata.

Il raffronto tra Turandot di Busoni e l’opera di Puccini permette più di ogni altra cosa di toccare con mano la differenza di quadro politico. Busoni segue abbastanza da presso Gozzi, affidando un ruolo importante all’Imperatore (che in Puccini è poco più di un comprimario) e mantenendo le maschere della commedia dell’arte (Brighella, Tartaglia e Truffaldino che in Puccini diventano Ping, Pong e Pang). Busoni lavorò circa sedici anni ad un opera in due atti altamente stilizzata e colma di ironia in un mondo artificiale popolato da personaggi o grotteschi o fiabeschi in cui si prende in giro qualsiasi forma di potere; in Busoni, la Principessa è solo una ragazzina capricciosa.

Ben differente il trattamento di Puccini. In primo luogo, un grande organico orchestrale ed un vasto impiego del coro, echi di Debussy ed anche di musica cinese si fondano in quella che è essenzialmente una scrittura tardo-romantica alla Korngold od alla Schrekrer. Il totalitarismo che regna a Pechino (nelle mani della Principessa) è accettato, ove non visto con benevolenza anche dagli oppositori (peraltro sconfitti e che sarebbero considerati «inferiori» ove non ci fosse il sacrificio di Liù o la disfida e vittoria finale di Calaf). Il totalitarismo è essenziale perché in esso «il popolo di Pechino» ha la propria libertà nei confronti dei tartari. È, poi, un totalitarismo «benevolo»: nel finale, che Puccini non riuscì mai a musicare, la durezza di Turandot (frutto di un’offesa fatta alla sua «ava» ed alla sua Nazione «or son mille anni e mille») «si scoglie» in gioia per tutti. Non manca uno sguardo severo a burocrazia e borghesia, impersonate per l’appunto da Ping, Pong e Pang.

Non sapremo mai perché Puccini non giunse a musicare il «disgelo» della Principessa; tuttavia, il disegno socio-politico complessivo era chiaro e si riassumeva nel Vincero!

Ai Weiwei si pone nettamente all’opposizione di tale quadro totalitario: vediamo le sale di ospedale Covid, i moti di Hong Kong e la loro repressione. Uno spettacolo visivamente affascinante. Unica pecca, a mio avviso, commentare «la casetta nell’Honan» ed il suo «lago blu» con immagini di Venezia, Parigi e Roma.

Sotto il profilo musicale, due eccellenze: la puntuale e vigorosa direzione d’orchestra di Oksana Lyniv e Francesca Dotto nella parte di Liù. Oltre ai cori preparati da Roberto Gabbiani.