Pupi Avati, celebre regista italiano, ha recentemente rilasciato un’intervista per il quotidiano La Verità, nella quale ha parlato della sua carriera e dell’attualità del cinema in Italia. L’occasione è quella dell’uscita al cinema del suo nuovo film, “La quattordicesima domenica del tempo ordinario“, nuova espressione del suo modo, unico, di fare cinema, già definita a più riprese “pupiavatismo”.



Un termine che, confessa Pupi Avati, “mi lusinga perché sintetizza un approccio personale, teso a guardare oltre il modo di fare cinema in voga“. Un cinema innovativo, ma che lo spinge verso la necessità di “convincere la committenza, i distributori, a credere in scelte molto stravaganti”, che tuttavia si rivelano sempre ottime, come il favore del pubblico dimostra ad ogni sua nuova pellicola. Sul suo nuovo film, invece, Pupi Avati spiega che la critica l’ha accolto bene, nonostante la scelta azzardata di andare controcorrente ancora una volta. Nel film, racconta, uno dei protagonisti si rivolge alla preghiera per superare una difficoltà, circostanza che non si vedeva “da cinquant’anni. Queste persone esistono”, spiega, “ma il cinema laicizzato non le considera”.



Pupi Avati tra cinema mainstream e premi mai ricevuti

Secondo Pupi Avati le sue scelte appaiono controcorrente perché “finché non cambiano quelli che gestiscono il potere del cinema italiano, fortemente ideologizzato, io non esisto, non ci sono proprio”. Ma per lui non è un problema, perché “essere emarginato da persone che non stimi dà grande forza”, confermando che, infatti, “sono già qui a scrivere il prossimo film”, anticipando che si chiamerà “L’orto americano”.

Complessivamente, forse con una nota amara nella voce, Pupi Avati racconta che “i premi ai miei film non sono mai a me“, come dimostra anche il fatto che probabilmente neppure il nuovo film verrà scelto tra i candidati al David di Donatello. Passando oltre al cinema, poi, si dilunga anche in un ragionamento sulla televisione italiana, rilanciando la sua idea di una “terza rete svuotata dalla pubblicità e convertita alla cultura“. Un progetto, racconta Pupi Avati, “ambizioso, che (sappia) inventare programmi innovativi”, ma che per ora sembra lasciato in un impolverato dimenticatoio.