Pupi Avati è in libreria con “L’orto americano” ed è già a lavoro per portare il romanzo sul grande schermo. Una storia gotica, tra reale e soprannaturale, dove la vita e la morte diventano un’unica cosa. Il libro è ambientato per metà negli Stati Uniti e per metà ad Argenta, in provincia di Ferrara. “Ho un’antica frequentazione col genere. Le storie di paura mi riportano alle favole della mia infanzia, ai cattivi, al diavolo” racconta a Libero. Nel romanzo ricorre anche il tema della malattia mentale: “La follia mi attrae. La mia agenda telefonica è piena di nomi di disturbati mentali, con loro mi trovo bene perché non conoscono i limiti della razionalità e mantengono viva la condizione della probabilità”.



La morte è centrale in tutto il romanzo: “Sono cresciuto in una cultura contadina, quella dei morti che ci restano accanto. Ho ereditato da mia madre la convinzione che non ci sono distanze tra la vita e la morte. L’idea foscoliana che bisogna tenere in vita i morti attraverso il ricordo, nelle nostre campagne alla fine dell’anno si recitava il rosario anche i defunti”. Il regista ha perso il papà a 12 anni: da sempre, infatti, si è confrontato con il tema della morte. “Il dolore più lancinante”, però, “è stato perdere mia madre. È stata una donna provvidenziale che ha fatto di tutto per non far sentire la mancanza di nostro padre”. La donna “ha alimentato i nostri sogni, non ci ha mai impedito di immaginare qualcosa di fantastico, non ha messo limiti alla creatività. Ci ha trasmesso l’idea che tutto è possibile, che i miracoli accadono. La sua era un’idea ottimista della vita che conservo ancora, nonostante i miei ottantacinque anni”.



Pupi Avati: “Parlo ancora con mia madre, morta vent’anni fa”

Pupi Avati ha sul computer una lista dei morti che aggiorna quotidianamente: “Ieri sera ho aggiunto il nome di uno dei più grandi amici, Maurizio. Non volevano dirmelo per non farmi soffrire, ma io l’ho scoperto ugualmente. Spesso, quando riguardo i titoli di coda dei miei film, mi accorgo che molte delle persone con cui ho lavorato non ci sono più. Il mondo si rimpicciolisce per me” racconta malinconico a Libero. Il regista ha l’abitudine di parlare con i morti: “Mia madre è mancata vent’anni fa ma ancora adesso quando ho un problema mi rivolgo a lei, come se potesse davvero risolvere i miei guai”.



Con una malinconica consapevolezza, dice: “Più si invecchia più si diventa bambini, in un percorso circolare per cui si torna alle origini. Come nel film di Ingmar Bergman Il posto delle fragole, in cui il protagonista alla fine ritrova i suoi genitori. Ecco, io sento la chiusura di questo cerchio”. Prima di chiudere questo cerchio, però, c’è ancora tempo per fare cinema. Un lavoro verso il quale la mamma lo ha incoraggiato da subito: “Il cinema è arrivato come una folgorazione quando ho visto Otto e mezzo di Federico Fellini. Capii che col cinema sarei riuscito a dire qualcosa di me”. La sua paura non è di morire. Non lo spaventa la morte “ma il dolore che recherà ai miei figli“.