Lo zar impegnato all’ultimo sangue nell’assedio di Mariupol è corso a “scusarsi” con il premier israeliano Naftali Bennett delle frasi di sapore antisemita pronunciate domenica sera dal ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov. È lo stesso Vladimir Putin che da settimane indugia a rispondere alle chiamate del presidente francese Emmanuel Macron: senza però mai scusarsi di nulla a nome dell’Armata Rossa; senza mai concedere nulla a possibili soluzioni negoziate; spesso e volentieri lanciando anatemi e minacce.



È lo stesso presidente russo che ha sbrigativamente rifiutato di ricevere al Cremlino papa Francesco. Al contrario – nei primi giorni dell’operazione militare speciale un Ucraina – Putin aveva premurosamente aperto le porte del Cremlino a Bennett. Quel blitz – non usuale in uno “shabbat” – non aveva tuttavia prodotto nulla di quanto atteso dal “wishful thinking” occidentale, nessun segnale di avvio di una de-escalation della crisi. Due mesi dopo, l’esito sostanziale di quel confronto appare più leggibile.



Quel volo al Cremlino, mentre gli Usa tuonavano già contro Putin “il macellaio”, ha di per sé conferito a Israele una solida patente preventiva di “potenza responsabile”, trasparentemente impegnata al cessate il fuoco: non smarrita e ammutolita come l’Europa, non indecifrabile e opaca come la Cina (e non solo “base logistica” come la Turchia). Ha posto Gerusalemme nella posizione di candidata naturale alla mediazione fra Mosca e Kiev (e Washington e forse anche Pechino): quella cercata invano dalla Santa Sede, anche per l’opposizione decisiva del patriarca russo-ortodosso Kirill. E quello compiuto da Bennett è stato un passo che Putin non ha temuto di pre-legittimare: tanto che le “scuse” dell’altro giorno – dopo “l’incidente Lavrov”, forse voluto – possono essere guardate più come una conferma/chiarimento che come una svolta.



Ora come allora, Israele e Russia sono spinti a confrontarsi su un’agenda geopolitica comune complessa, costruita nel tempo, di cui il conflitto ucraino è giunto a mettere in risalto le linee. L’interesse di Bennett a non legarsi le mani nelle avvisaglie della “terza guerra mondiale” aveva e mantiene un importante risvolto interno: nello Stato ebraico gli immigrati russi rappresentano una quota crescente e ormai rilevante della popolazione e la loro ortodossia religiosa ne colloca molti nell’elettorato nazionalista del premier. Né sono stati un caso la cautele nell’accogliere profughi ucraini non ebrei; le contestazioni all’intervento alla Knesset del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, pur israelita; o la stessa “crisi virtuale” della maggioranza Bennett, provocata da una deputata ultra-ortodossa, ufficialmente per questioni religiose.

Putin, dal canto suo, è stato da subito attento a non ritrovarsi contro (almeno non appieno, nella fase iniziale della campagna) le tecnologie militari e d’intelligence di Tel Aviv a supporto di esercito e milizie ucraini. Né è possibile trascurare il ruolo degli oligarchi israeliti (il più noto è Roman Abramovich): vicini a Putin, gestori di grandi ricchezze “nazionali” russe e “ambasciatori” in Occidente; ma anche grandi investitori e filantropi in Israele; e in qualche caso attivi anche in Ucraina. Tutti oggi sotto doppia pressione: anglo-americana e russa.

Già all’inizio di marzo, in ogni caso, Putin ha potuto giocare con Bennett l’importante carta siriana: l’autorizzazione di fatto all’aeronautica israeliana al pattugliamento avanzato nei cieli di Damasco contro la minaccia iraniana. E quello fra Israele e Teheran è un fronte che si va riscaldando: anche perché la guerra russo-ucraina ha rovesciato il tavolo nei negoziati internazionali “5+1” sulla proliferazione nucleare dell’Iran. La stessa brutale ripresa del terrorismo in Israele e delle tensioni a Gaza difficilmente può essere considerata estranea alla grande destabilizzazione provocata dalla crisi ucraina, ben visibile nel contiguo scacchiere mediorientale.

Qui è tornata di scottante attualità anche “la questione delle questioni”: quella dei territori palestinesi, non priva di similitudini con la contesa ucraina. Ed è su questo fronte specifico che l’America di Joe Biden ha lanciato negli ultimi giorni una controffensiva diplomatica verso Israele, da sempre alleato di ferro degli Usa (e forza di primo piano nella società statunitense), ma oggi più indipendente rispetto alle guerre di fine secolo ventesimo; e sempre meno vicino all’America “dem”, come ha confermato l’asse fra Donald Trump e Bibi Netanyahu.

Sono stati proprio i due ex leader – ma tutt’altro che ritirati – a siglare due anni fa alla Casa Bianca gli “Accordi di Abramo”: l’ennesimo “piano finale” per Gaza e la West Bank, con la sostanziale annessione dei territori allo Stato ebraico, in cambio di garanzie politiche e sostanziosi aiuti economici alle comunità palestinesi. Le quali, naturalmente, hanno subito respinto la prospettiva: che tuttavia aveva raccolto la non opposizione dei Paesi della penisola arabica (oggi tuttavia meno caldi verso gli Usa rispetto all’era-Trump).

Biden ha finora tenuto in congelatore il “piano Trump” (e il precedente riconoscimento Usa dello spostamento della capitale a Gerusalemme): complici il Covid, la fine dell’ “era Netanyahu” e l’avvento problematico di Bennett (un finanziere ebreo-americano, dissidente di centrodestra di “King Bibi”). Ma i due mesi di “neutralismo passivo” fra Israele e Usa sul fronte ucraino sono stati ben diversi da quelli di “neutralismo attivo” reciproco  fra Bennett e Putin (non da ultimo: benché i rischi energetici siano ogni giorno più elevati per l’Europa, Israele ed Egitto non hanno per ora calato sul tavolo la carta del gasdotto EastMed-Poseidon, alternativo a Nord Stream). È stato dunque così che Biden ha preso l’iniziativa con uno scambio forzante: il pressing su Gerusalemme perché sedesse fra i 43 Paesi della “coalizione Nato allargata” convocati da Washington in Germania; e il preannuncio di un viaggio di Biden in Israele in tempi brevi.

Nessuno può stupirsi se – “ad horas” – Putin abbia voluto chiudere “l’incidente Lavrov”: cioè ribadire che il “primo amico” di Israele, in questo drammatico inizio di 2022, resta lui. Bennett, nel frattempo, si ritrova ora in tasca due legittimazioni a doppio taglio: che possono lanciare Israele nel ruolo (non inatteso) di hub di nuovi equilibri globali, fra Yalta e Bretton Woods; oppure scaricare sul Paese – che ha appena compiuto 74 anni – una parte delle enormi tensioni accumulate sul pianeta dal 24 febbraio in poi.

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