È stata una Giorgia Meloni decisa a rispettare gli equilibri con gli alleati, sia in Italia sia in Europa, quella che si è presentata ieri in Senato per le consuete comunicazioni rese alla vigilia di un Consiglio europeo, il penultimo prima del voto di giugno. Profilo istituzionale ed estrema attenzione a non urtare i rapporti con la propria maggioranza ma neppure con Ursula von der Leyen, al momento la sua garante nelle cancellerie Ue.
Lo scoglio più problematico è l’approccio alle elezioni in Russia: una parola fuori posto avrebbe potuto incrinare i rapporti tanto con Matteo Salvini quanto con l’Europa. Il ministro delle Infrastrutture era assente ieri a Palazzo Madama: si trovava al ministero per impegni di lavoro, ha fatto sapere il suo entourage. Una mossa per evitare al Governo le contestazioni della sinistra in Parlamento. Fatto sta che Giorgia Meloni ha detto cose sostanzialmente scontate – “non ci sederemo al tavolo delle trattative con Mosca”, ha affermato: ma non è una decisione che spetta a lei –; tuttavia, ne ha aggiunte altre per confermare la presa di distanza dall’interventismo francese che sembra invece aver contagiato la Germania. Dunque l’Italia non interverrà direttamente in Ucraina per non innescare “una escalation pericolosa, da evitare a ogni costo”.
È stato invece sibillino il commento sul risultato delle urne russe: la premier ha ribadito “la nostra condanna a elezioni farsa nei territori ucraini”. Certo, è assurdo pensare che nei territori occupati le percentuali pro Putin uguaglino quelle nel resto del Paese, ma appunto: che ne pensa Meloni del voto nei territori “non ucraini”? Risposta non c’è stata: nel prendere una posizione c’era il rischio di entrare in collisione con il leader della Lega, che l’altro giorno, a domanda dei giornalisti, ha risposto che “Quando il popolo vota ha sempre ragione”. Parallelamente, la Meloni si è guardata bene dall’entrare sul terreno dei vari leader internazionali che si sono rifiutati di riconoscere Putin come capo dello Stato legittimamente eletto.
Chiare invece le espressioni a difesa della memoria del dissidente Aleksej Navalny: “Il suo nome come simbolo del sacrificio per la libertà non sarà dimenticato”. E altrettanto decise sono state le parole a favore della politica di riarmo, che è una delle idee forti della von der Leyen in questa campagna elettorale. “La libertà ha un costo”, ha detto la Meloni, “spendere in difesa significa investire nella propria autonomia, nella propria capacità di contare e decidere”. Armi sì, presenza di truppe sul terreno no. Le forniture militari vanno intese come “patto pluriennale di sicurezza”, quindi per la pace e non per la guerra. Anche in questo caso, il crinale che fa da spartiacque tra interventismo (posizione europea) e “pacifismo” (posizione salviniana) è un sentiero impervio da seguire ma la Meloni, prudente, ci riesce.
Quanto al Medio Oriente, la presidente del Consiglio ha confermato che al Consiglio europeo ripeterà l’opposizione italiana a una missione militare terrestre di Israele a Rafah “che potrebbe avere conseguenze ancora più catastrofiche sui civili ammassati in quell’area”. Sono parole che segnano, ancora una volta, l’allineamento dell’Italia alle posizioni Usa: appoggio a Israele ma con crescenti distinguo dall’offensiva di Netanyahu, allineati in buon ordine sulla linea di Biden.
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