C’è un gravissimo rischio sotteso all’inchiesta della magistratura belga sulle mazzette del Qatar a esponenti della sinistra nell’Europarlamento. Ed è lo stesso che accompagnò la stagione di Mani pulite in Italia trent’anni fa: ovvero che le procure facciano un po’ di sacrosanta pulizia, ma senza che le istituzioni imparino la lezione di fondo procedendo a un’altrettanto doverosa autoriforma.
Il rischio si vede già dal nome che i media hanno affibbiato allo scandalo: Qatargate. Dovrebbe essere piuttosto Eurogate. I contanti trovati a casa degli indagati arriveranno anche dagli sceicchi, ma il teatro della corruzione (che al momento è ancora presunta) resta il Parlamento europeo, le istituzioni rappresentative a esso collegate e il sistema di lobby che da sempre regola l’attività legislativa comunitaria.
Che Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo siano tra le capitali mondiali delle lobby è arcinoto. Che il Parlamento Ue abbia regolamentato, almeno in parte, l’attività dei lobbisti è altrettanto vero. Ma è un fatto che il funzionamento delle istituzioni comunitarie resta un’opaca agorà di scambi incrociati. Il Parlamento è eletto, ma è lontanissimo dagli elettori. Chi comanda non sono gli eletti, ma quanti tessono rapporti e relazioni per affermare una serie di interessi che saranno pure legittimi, ma restano totalmente privi di trasparenza.
Il trionfo delle lobby si trasferisce poi quasi in automatico sui sistemi legislativi dei vari Paesi e sulle scelte economiche imposte dai vertici ai governi. Il sogno unitario dei Padri fondatori rischia di naufragare non perché manchi una politica estera comune o una difesa comune o perché la Germania la sta facendo da padrona: il fatto è che il consenso espresso dagli europalazzi è frutto delle pressioni lobbistiche senza che le istituzioni abbiano creato al proprio interno gli anticorpi per combattere le degenerazioni.
Ora succede che questa clamorosa inchiesta travolga proprio il Pd, partito autoinvestitosi del ruolo di garante degli interessi europei in Italia. Ed è paradossale che, da Letta all’ex eurodeputata Schlein, i vertici del Pd prendano le distanze da Antonio Panzeri e dalla rete che coinvolge altri eurodeputati della sinistra con la relativa oscura corte di assistenti (presunti) intrallazzatori. “Compagni che sbagliano”, si diceva una volta. Il Pd si è dichiarato parte offesa, anche se – fino al passaggio ad Articolo Uno – Antonio Panzeri era uno dei suoi esponenti più autorevoli nel Nord Italia, l’ex leader della Cgil che trattava faccia a faccia con i capi delle nostre maggiori imprese produttive. È la stessa doppia morale vista con Soumahoro: il compagno sbaglia ma il sistema torbido in cui per anni ha sguazzato non si tocca.
Su Panzeri e il suo giro la sentenza è già stata emessa anche dalle stesse istituzioni di Bruxelles, che hanno tolto alla greca Eva Kaili la carica di vicepresidente del Parlamento senza attendere un verdetto giudiziario. Nello stesso tempo però i “cattivi” sono sempre i soliti, come dimostra il fatto (denunciato da Matteo Salvini) che alla Lega sia stato impedito di firmare la proposta di risoluzione congiunta con tutti i gruppi dell’Europarlamento per condannare il Qatargate. “È questa la democrazia tanto decantata dalla sinistra europea?”, si è chiesto il leader leghista.
L’inchiesta potrebbe presto allargarsi: qualche giornale ha già scritto che sarebbero addirittura una sessantina gli europarlamentari coinvolti a vario titolo. Se così fosse, sarebbe uno scandalo di portata ben più vasta di quello che coinvolse nel 1999 la francese Édith Cresson e portò alle dimissioni della Commissione Ue guidata dal lussemburghese Jacques Santer, quella che comprendeva Mario Monti ed Emma Bonino. Stavolta si ripeterà la caccia ai capri espiatori nella convinzione che essa sia sufficiente per esorcizzare i mali insiti nelle istituzioni Ue e salvaguardare la loro elefantiaca macchina burocratica, oppure sarà l’occasione per una vera riforma?
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