Caro direttore,
il Qatargate scuote le istituzioni  Ue, schiaffeggia la sinistra europea e il Pd italiano, ma (ri)chiama sul banco degli imputati anche Milano. Senza troppi complimenti il Financial Times ha etichettato Antonio Panzeri come “boss” sindacale: ma il suo “covo” storico non era una masseria della Locride, era la Camera del lavoro di Milano. Un luogo carico di memorie storiche al punto da essere incluso negli itinerari turistici della metropoli ambrosiana nel ventunesimo secolo.



Il palazzo costruito negli anni Trenta in stile piacentiniano in corso di Porta Vittoria era stato voluto personalmente da Benito Mussolini: antico socialista e milanese d’adozione, perfetto conoscitore di quella Confederazione generale del lavoro fondata a Milano nel 1906, a consolidare una delle prime Camere del lavoro italiane. Il discorso commemorativo dei 75 anni – tenuto da Luciano Lama – è tuttora un saggio di storia del sindacalismo italiano contemporaneo.



L’eco di quelle parole era ancora viva quando Panzeri iniziò la sua parabola di leader sindacale: negli anni in cui Milano veniva terremotata da Mani pulite, scatenata da un palazzo di giustizia lontano poche centinaia di metri dalla Camera del lavoro. Perché – dopo le commemorazioni del trentennale di Tangentopoli – il filo sotterraneo della corruzione fra politica e affari tirato a Strasburgo riaffiora a Milano?

È una domanda che interroga in modo drammatico soprattutto la sinistra: a cominciare da quella meneghina e da quella sinistra che la Procura di Milano in parte risparmiò. Una sinistra che tende a confondersi volentieri con una non meglio definita “società civile”: perennemente “resistente” al centrodestra al governo della Regione da allora. Oppure al destra-centro al potere a Roma da due mesi. Sempre in nome di una presunta “superiorità morale” più forte di ogni legittimazione elettorale.



Nel frattempo l’urbanistica milanese non ha mai cessato di arricchirsi di luoghi attrattivi, immancabili simboli dello spirito del tempo (e forse dello spirito profondo della città, al di là di ogni transeunte giudizio etico-politico). Sarebbe insidioso – e quindi inopportuno – citare un “building” dimenticandone un altro; un cognome invece di un altro, una sigla societaria piuttosto che i colori di una bandiera nazionale. È vero che il Qatar è da molti anni uno dei denominatori comuni di questo scorcio di storia meneghina: nessuno può dimenticare l’accoglienza riservata dalla città ad Hamad bin Khalifa Al Thani – emiro del Qatar e padre del monarca odierno – alla prima della Scala del 2007 (al centro del palco sedeva il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano). L’emiro alloggiò in un albergo già allora di sua proprietà: il Gallia, uno dei brand storici dell’hotellerie ambrosiana. Pochi mesi dopo, nel marzo 2008, il Bie assegnò l’Expo 2015 a Milano: e i voti delle capitali del Golfo – Doha in testa – furono decisivi. Sulla scia dell’Expo, Milano ha poi strappato le Olimpiadi invernali del 2026, in tandem con Cortina d’Ampezzo.

Nel “Grande Reset” globale scatenato dalla pandemia e dalla nuova guerra, ritrovarsi addosso i fari della nuova questione morale internazionale è certamente un handicap per una metropoli che si considera – non a torto – uno degli ombelichi del pianeta. Sta alla classe dirigente milanese trasformare l’incidente-Panzeri – non piccolo – in un’occasione di riflessione sul futuro della sua città.

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