Lo scandalo che sta travolgendo il Parlamento europeo è oramai associato nell’immaginario collettivo alle valigie piene di soldi, all’immagine dell’affascinante parlamentare greca, alle vacanze dorate di alcuni degli arrestati. Tuttavia, non risulta meno interessante comprendere come l’inchiesta abbia visto muovere i suoi passi, soprattutto per provare a comprenderne i futuri sviluppi.
Un primo aspetto poco approfondito dai media è che l’inchiesta belga ha dovuto fare i conti con un fattore di grande rilevanza ovvero l’immunità parlamentare europea, in considerazione della quale, se la polizia vuole arrestare o intercettare un parlamentare o perquisire il suo ufficio, deve chiedere l’autorizzazione. Per evitare quindi di scoprire troppo presto le carte, gli inquirenti hanno scelto opportunamente di lavorare sui personaggi non protetti da questa immunità: Antonio Panzeri, Francesco Giorgi, Luca Visentini, Niccolò Figà-Talamanca, cercando di utilizzarli come cavalli di Troia. È pertanto legittimo desumere che da questo primo cerchio di personaggi si arriverà, sebbene in tempi non troppo brevi, ai parlamentari europei.
Nel loro piano iniziale gli investigatori non immaginavano di raggiungere immediatamente la parlamentare Eva Kaili, vicepresidente del Parlamento. Ma l’arresto a sorpresa di suo padre, che lascia un hotel con una valigia piena di soldi, a seguito dell’arresto del suo compagno e assistente parlamentare Giorgi, ha consentito di far saltare il vincolo dell’immunità con l’unico elemento possibile: la flagranza di reato. La polizia che aveva effettuato le perquisizioni mattutine mettendo in moto la macchina giudiziaria con l’ufficializzazione dell’indagine, ha quindi così potuto precipitarsi nella casa di Kaili, scoprendo altre centinaia di migliaia di euro. In sostanza un risultato straordinario per il giudice Michel Claise, specializzato nella lotta alla corruzione, che, nota di colore, si è spesso lamentato nel corso delle sue indagini di dover attaccare «fortezze con catapulte», riferendosi alla palese mancanza di mezzi finanziari della giustizia belga. Quando si dice che tutto il mondo è paese.
Un secondo aspetto di interesse è legato alla considerazione che, pur essendo solo all’inizio dell’inchiesta, inizia ad emergere come a Bruxelles, città con solo un milione di abitanti ma che ospita la sede della Commissione, del Parlamento europeo e della Nato, fra varie organizzazioni e lobbisti di ogni tipo si siano consolidato un sistema opaco in cui denaro e politica si fondono in un cocktail che può essere pericoloso. L’inchiesta mostra infatti quanto i controlli, oltre che gli anticorpi interni, siano del tutto fragili.
La mancanza o l’inadeguatezza degli organi di controllo europei sono in una visione d’insieme i veri imputati di questa indagine. Eppure essi sulla carta esistono, sono per certi versi ossessivi ma per la prima volta hanno dimostrato la loro inadeguatezza, aprendo con ciò una profonda riflessione sulla necessità di ripensare quei controlli di prevenzione di cui le istituzioni europee sono sempre state particolarmente fiere.
Infine, un terzo aspetto appare meritevole di menzione, a suffragare gli altri. Dalla lettura dei provvedimenti giudiziari, si legge che “la cricca, oltre ad una azione di lobby legittima, agiva anche con la cooptazione di europarlamentari, assistenti parlamentari, funzionari del Seae e dei vertici sindacali”. Nell’inchiesta della Procura belga emerge quindi il coinvolgimento della Commissione europea, ovvero il governo dell’Ue. Il Seae infatti altro non è che il servizio europeo per l’azione esterna, guidato dallo spagnolo Josep Borrell.
Come scrive la stessa magistratura belga, pertanto, la “cricca” e i loro fiancheggiatori avevano obiettivi che per loro natura rischiavano di incrinare la sicurezza dell’Ue e dei singoli Stati membri. Qui evidentemente non si parla più di bassa corruzione, ma di un fine assai più alto che è quello di influenzare le decisioni delle istituzioni europee. Il Marocco e il Qatar coltivavano obiettivi diversi, a volte sovrapposti. Ma ciò che rileva sono i risultati concreti ottenuti che appaiono, a dar credito all’inchiesta, imbarazzanti. Secondo gli inquirenti, la cricca ha in più occasioni dato vita a diverse risoluzioni parlamentari per frastagliare il fronte dei contrari ai due Paesi, che hanno anche ottenuto “diverse dichiarazioni pubbliche” per impedire che il giudizio del Parlamento fosse unitario. Senza rinunciare a tentare di collocare alla presidenza o alla vicepresidenza delle commissioni parlamentari, come la Darp (Delegazione per i rapporti con la penisola arabica), la Afet (Affari esteri) e la Droi (diritti) persone gradite, come ad esempio risulterebbe essere il parlamentare campano Andrea Cozzolino. Secondo l’inchiesta, anche il risultato di fare eleggere la Kaili alla vicepresidenza del Parlamento europeo rientrerebbe negli obiettivi del gruppo di personaggi indagati.
Insomma, ferma restando la presunzione di non colpevolezza rispetto ai singoli, il quadro d’insieme che emerge, oltre a far ipotizzare un’importante evoluzione sul piano investigativo con un progressivo coinvolgimento diretto dei parlamentati europei, fa soprattutto venire qualche brivido sull’indipendenza delle azioni delle nostre istituzioni europee. Avremo da dolercene a lungo.
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