È passato quasi un quarto di secolo, era il 19 marzo 1999, quando la Commissione europea presieduta da Jacques Santer, ex primo ministro del Lussemburgo, un centrista scelto nel 1995 dai governi perché moderatamente federalista dopo l’accelerato decennio di costruzione sovranazionale della Commissione Delors, dovette dimettersi in blocco su una controversia con il Parlamento europeo che l’accusava di frodi e di cattiva gestione budgetaria.
Mentre in contemporanea la guerra del Kosovo portava all’intervento militare della Nato che bombardò pesantemente, anche con bombe al fosforo, il sud della Serbia e la capitale Belgrado, fu ad una grande signora del socialismo francese, membro del convintamente europeista Pse, l’ex primo ministro Édith Cresson, che fu attribuita la colpa delle frodi generalizzate nell’uso dei fondi pubblici gestiti dalla Commissione. A lei furono contestati dei secondari “contratti di favore” commessi nel suo gabinetto, tant’è che nel 2006 la Corte europea di giustizia la condannò senza però ritirarle il diritto alla pensione.
Di quella Commissione, Mario Monti, da poco celebrato alla Bocconi dal presidente Sergio Mattarella e dall’attuale presidente della Commissione Ursula von der Leyen, fu commissario al Mercato interno e insisteva allora sulla responsabilità di “alcune persone” che costrinsero il collegio a dimettersi in blocco.
La conseguenza della crisi Santer, in prevalenza giocatasi attorno alle figure più europeiste, i socialisti europei, fu che terminò la cooperazione deloriana tra la Commissione e il Parlamento europeo rafforzando i poteri parlamentari, oltre che sul controllo del budget, anche nella scelta e selezione dei membri della Commissione e nel processo legislativo. Il Consiglio europeo (i governi degli Stati membri) rafforzò il proprio potere nell’indirizzo e nella gestione degli affari esteri. Nacque così, nel 1999, la Commissione Prodi, ex primo ministro italiano, europeista moderatamente federalista, che, per archiviare l’era Santer, annunciò tolleranza zero per le frodi e rapidamente creò l’Olaf (ufficio anti-frodi) con poteri più estesi e indipendenti dalla Commissione.
Nel quindicennio (1999-2014) delle Commissioni Prodi e Barroso, il numero dei lobbisti a Bruxelles è lievitato enormemente insieme al numero degli Stati membri (28 nel 2013). Da qualche decina, i vecchi tradizionalisti del mercato comune, si è rapidamente passati ad alcune migliaia. Dalle vecchie lobby settoriali, industriali e sociali, che contavano al più alcune centinaia di operatori, nel 2019 le organizzazioni come Transparency International, Lobby Control, Alter-EU, concordano che circa 30mila lobbisti professionali, oltre a strutture governative e di intelligence, e alle mafie, operano a Bruxelles attorno, e dentro, le istituzioni europee. Sono scese in campo le Big Four (E&Y, Deloitte, ecc.) e un numero crescente di studi legali, in prevalenza anglosassoni. Piccola nota: i testi giuridici ufficiali, che sono la parte sostanziale delle legislazioni europee, sono in lingua inglese!
Il costo attuale di queste operazioni, ancora nettamente inferiore a quello che si sviluppa a Washington, è stimato a 1,5 miliardi di euro l’anno. Perché è avvenuto ciò?
L’espansione e la centralizzazione dei processi decisionali politici a livello europeo (oggi l’80% delle legislazioni nazionali trova origine nell’Ue a Bruxelles) in un quadro istituzionale europeo che conta circa 25mila addetti (i funzionari europei), strutturalmente inadeguato per misura e capacità di gestire il peso del potere politico/legislativo attribuitogli, è una manna per chi vuole tutelare, curare, promuovere o imporre i propri interessi. I procedimenti di formazione del “consenso” sui testi (legislativi e regolamentari) – attraverso le consultazioni della Commissione e i comitati di esperti – che poi il Parlamento in plenaria deve votare in serie con rapidi colpi di click (in media uno ogni due minuti), perché già discussi in specifiche commissioni settoriali, impedisce ogni possibile dibattito, sottraendo qualità deliberativa ai rappresentanti eletti ma favorendo le lobby più capaci e più ricche.
Più che rappresentanti dei cittadini elettori, spesso i parlamentari europei, a volte inconsapevolmente, diventano portavoce di interessi particolari e/o privati. Questa è la situazione: un modello di democrazia all’americana senza essere l’America! Già nel 2006, chi scrive aveva pubblicato un libriccino per descrivere la situazione delle lobby a Bruxelles e l’incapacità di alcuni Paesi, come l’Italia. Poco è cambiato da allora.
I negoziati cruciali della formazione legislativa europea – tra la Commissione europea, il Parlamento europeo e gli Stati membri – nel cosiddetto trilogo si svolgono in segreto. Sono una porta d’accesso per l’influenza unilaterale delle lobby. Non si riesce davvero – se non si è molto ricchi e potenti – a sapere, seguire, come stanno andando questi negoziati e chi rappresenta quali posizioni. È nella complessa (e opaca) procedura di modifica dei testi che le varie lobby agiscono, talvolta in modo sostanziale rispetto alle iniziali intenzioni delle istituzioni europee.
La Corte europea ha stabilito nel 2018 che il pubblico ha diritto alle informazioni durante l’intero processo di formazione legislativa europea. Finora la Ue si è rifiutata di divulgare i documenti relativi ai negoziati. Si possono visionare solo ex post, per uno studio storico. E succede anche di più. Durante la crisi Covid-19 la Commissione ha svolto una serie di negoziati – secretati – per affrontare la crisi e fornire soluzioni (i vaccini). Il Parlamento europeo ha più volte chiesto alla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, di riferire sul contenuto dei negoziati e sull’uso degli enormi fondi pubblici europei utilizzati. Tra mezze risposte ed evasive parole, la Commissione ha spostato l’attenzione dei parlamentari sulle compagnie farmaceutiche. Infatti, il Parlamento europeo ha già, almeno due volte, convocato il Ceo della Pfizer a testimoniare davanti al comitato “salute”. Immancabilmente, la Pfizer ha rifiutato di partecipare. Ricordiamoci che all’inizio del 2022 la presidente della Commissione provò a spostare la sua personale responsabilità – scambiava numerosi sms al giorno con il Ceo della Pfizer – sui servizi comunitari competenti (e dipendenti). Poi, la presidente della Commissione ha fatto sapere che non ricorda… anche perché una procedura di sicurezza interna cancella i messaggi dal suo telefonino. Vabbè, madama la marchesa!
Era il 2015 quando la Commissione approvò la prima direttiva (Eu) 2015/849 – AMLD, Anti Money Laundering – emendando il regolamento parlamentare del 2012 e le precedenti direttive imponendo a tutti gli Stati membri di istituire registri centrali della titolarità effettiva contenenti informazioni accurate, adeguate e aggiornate sui veri proprietari delle società. Inizialmente, le autorità non sono riuscite a identificare le persone politicamente esposte probabilmente coinvolte in attività sospette nei registri della titolarità effettiva, anche quando erano già sotto indagine in diverse giurisdizioni. Il loro ruolo e il loro coinvolgimento sono diventati chiari solo quando i giornalisti e la società civile hanno ottenuto l’accesso ai registri.
Nel 2018 questa situazione fu corretta, ma la Corte europea, nel novembre 2022, ha deciso che in base agli articoli 7 (privacy) e 8 (data protection) della Carta europea dei diritti dell’uomo era necessario invalidare le disposizioni della direttiva anti-riciclaggio dell’Ue che imponevano agli Stati membri di garantire l’accesso ai registri della titolarità effettiva a qualsiasi membro del pubblico. Stiamo già vedendo i risultati, poiché Austria, Lussemburgo e Paesi Bassi hanno già chiuso l’accesso ai loro registri.
In materia di lobbying, nel 2016 l’Unione Europea ha istituito un “registro della trasparenza” (Transparency Register) che invita “tutti i rappresentanti di interessi a registrarsi volontariamente se svolgono attività volte a influenzare l’elaborazione delle politiche, l’attuazione delle politiche e il processo decisionale nelle istituzioni dell’Ue” (dal testo giuridico sono esclusi i governi!). Come notava Politico già nel 2020, si tratta di una misura inefficace e piuttosto ipocrita.
Inoltre, è proprio per i parlamentari europei che non esiste una vera trasparenza delle loro attività e interessi economici e finanziari: il tutto si risolve con un’“autodichiarazione”.
È in questo contesto che da qualche giorno l’Unione Europea, e i cittadini europei, vivono un surreale psicodramma che si sviluppa con inchieste giudiziarie nazionali, iniziate dalla procura belga con il supporto (via Eurojust) di quella italiana e greca (chissà perché non della procura europea istituita nel 2021), che ha portato a perquisizioni e sequestri nelle sedi del Parlamento europeo, nelle abitazioni anche familiari di alcuni parlamentari, e all’arresto o imputazione di varie persone tra cui un paio di deputati, alcuni assistenti parlamentari, almeno un funzionario, e qualche familiare, oltre ad esponenti delle rappresentanze sindacali europee e internazionali. Le notizie filtrano poco e in modo molto confuso.
Sorprendente è che, il 13 dicembre, il Parlamento europeo in seduta plenaria abbia deciso (con solo due voti contrari) di revocare dall’incarico elettivo e funzionale la vice presidente greca, la socialista Eva Kaili, arrestata su base indiziaria ma non ancora giudicata o condannata. I partiti nazionali e i gruppi politici (Socialisti e Democratici) europei hanno anche sospeso o cacciato i loro membri che sono stati attenzionati dalle procure ma non arrestati. Misure massimaliste e giacobine!
Le accuse e i sospetti, perché di questo per ora si tratta – questo ci è stato detto finora – con forse delle prove indiziarie solide (intercettazioni e presunte prove materiali), sarebbero collegabili a ritrovamenti di importanti somme di denaro detenute in liquido (banconote), in sacchi e valige, nelle abitazioni degli indiziati e presumibilmente pagate da uno Stato estero, il Qatar, per corrompere le istituzioni europee. A quanto si apprende dalla stampa si tratterebbe di un milione e mezzo di euro in banconote di piccolo taglio (sembra lo script di un film sui narcos!), oltre a qualche invito lussuoso in alberghi brussellesi o in Qatar. Una modalità davvero stravagante per un governo di condurre un’azione lobbistica nelle istituzioni europee (in oltre trent’anni mai visto nulla di simile).
È vero che la dabbenaggine non ha mai limiti, così come anche la criminalità, ma certo il tutto appare molto strano e quasi incredibile. Il movente, sempre secondo la stampa, sarebbe di favorire l’immagine e la reputazione del Qatar nel rispetto dei diritti umani, e in particolare dei lavoratori. Come riporta Politico, il rappresentante degli affari lobbistici del Qatar in Francia e della comunicazione a Bruxelles, Sihem Souid, ha dichiarato che “sinceramente, non abbiamo bisogno di pagare nulla ai membri del parlamento per convincerli”.
L’oligarchia europeista è diventata giustizialista, con un fondo di razzismo anti-islamico, in modo preoccupante e senza una logica riconoscibile. Tutto questo, mentre il 47% dei fondi necessari per le infrastrutture dei mondiali di calcio è arrivato da banche europee, e negli anni il fondo sovrano del Qatar ha investito 45 miliardi in UK, 25 in Francia, circa 12 in Italia, e in Germania detiene importanti quote di grandi aziende e banche (ad esempio, il 6,7% di Deutsche Bank). Non a caso, in Francia, dove il Qatar detiene quote di Airbus e una vastità di investimenti immobiliari, il 24 novembre è intervenuto direttamente il presidente Macron con una dichiarazione dove si afferma che in Qatar “sono in corso cambiamenti reali” riguardo al trattamento dei lavoratori migranti.
E non si possono dimenticare gli stretti legami tra Qatar e Fratelli musulmani tanto utili alle politiche mediorientali americane ed europee durante le osannate primavere arabe, improvvisamente abbandonati nel 2013 con il colpo di stato che ha deposto il presidente egiziano eletto, Mohammed Morsi, favorendo gli interessi più che autocratici e decisamente reazionari delle altre monarchie del Golfo (Arabia Saudita, Emirati) e di Israele e Turchia.
Il 2014 – annus horribilis per l’Europa – ha marcato la “normalizzazione” autocratica del vicinato europeo nel Mediterraneo e l’inizio della fine della pace in Europa sul fronte orientale, con la Russia accusata di essere la principale minaccia per la pace in Europa e l’Ucraina esaltata come nascente e fiorente democrazia. È sorprendente che l’Unione Europea, obbligata dai suoi stessi Trattati al rispetto del diritto internazionale, secondo la Carta dell’Onu ma ancor più a preservare la pace in base all’esplicitamente richiamato Atto finale di Helsinki, abbia adottato solo blande misure nei confronti delle autocrazie mediterranee e del Golfo mentre nei confronti della Russia – chiave del testo di Helsinki – abbia adottato misure draconiane con un crescendo di sanzioni fino all’attuale nono pacchetto e ad un’espulsione della Russia dall’Europa. C’è da chiedersi se l’Ue, alla quale nel 2012 fu persino attribuito il premio Nobel per la pace, abbia contribuito alla pace e se le sue decisioni attuali, che appaiono poco autonome quanto masochistiche, siano compatibili con lo spirito dei suoi trattati.
In Qatar erano corsi vari governi europei (tra cui Germania e Italia) per firmare memorandum of understanding per la fornitura di gas Lng in sostituzione di quello non più disponibile dalla Russia. Accordi di principio che il Qatar ha gelato con un mega-accordo con la Cina, il 21 novembre, che prevede addirittura l’integrazione di Sinopec nello sfruttamento dei giacimenti qatariani e il raddoppio delle forniture di gas per 27 anni.
Nonostante ciò, l’apoteosi europea si è raggiunta il 23 novembre, quando il Parlamento europeo, un giorno dopo il voto di un simile testo da parte dell’Assemblea parlamentare della Nato, ha adottato una risoluzione che designa la “Russia stato sponsor del terrorismo” (494 voti a favore, 58 contrari e 44 astensioni). È interessante notare che posizione abbiano assunto i deputati socialisti coinvolti nell’inchiesta Qatargate: tra i contrari figurano i due esponenti socialisti italiani, Pietro Bartolo e Andrea Cozzolino, tra gli astenuti figura la socialista greca vicepresidente del parlamento, Eva Kaili, mentre il deputato socialista belga, Marc Tarabella, che ha votato durante le procedure sui vari emendamenti, sul testo finale non compare più né a favore, né contro, né astenuto. Forse qualcuno non ha apprezzato. Qualcuno vorrà un giorno spiegarci in che modo una tale risoluzione sia compatibile con la pace e con il dettato dei trattati europei.
Mentre l’inchiesta giudiziaria sulla presunta corruzione di parlamentari e funzionari europei è ancora in corso – iniziata dal noto giudice romanziere belga Michel Claise e sostenuta dal suo corrispondente italiano di Milano, Fabio De Pasquale – da più parti si sollevano dubbi sulla concretezza dei fatti corruttivi e sulla solidità delle prove accusatorie: Politico paventa un “teorema”, e la stampa belga non si risparmia nel richiamare la personalità del giudice Claise mentre altri ricordando i suoi successi giudiziari citano le parole di un avvocato che lo descrive così: “È imbevuto di sé stesso e a volte ha il mandato di arresto troppo facile per decifrare il sospetto o appendere un nome noto sulla sua tavola da caccia”. Intanto, l’avvocato difensore di Eva Kaili ha rilasciato dichiarazioni secondo le quali la sua assistita “è totalmente all’oscuro della presenza di banconote nel suo appartamento” e che “la signora Metsola (presidente in carica dell’europarlamento) l’ha mandata in Qatar (…) ha avuto l’approvazione della signora Metsola (…) che aveva anche inviato con lei un funzionario dell’Ue, Roberto Bendini, per assistere a tutti gli incontri della signora Kaili (…) la signora Kaili, stava portando avanti un piano che era iniziato nel 2019, l’alto rappresentante Josep Borrell e Ylva Johansson [commissario per gli affari interni] avevano deciso, a livello di Commissione, di cooperare con Qatar, Kuwait e Oman”.
Invece, continuando una strana linea massimalista, l’europarlamento ha chiesto alla Commissione di “congelare tutti i dossier legislativi legati al Qatar, in particolare quello che prevede la liberalizzazione dei visti” e Karima Delli, una deputata francese dei Verdi capo del comitato trasporti – lo stesso partito di un’altra indagata, la funzionaria capo unità per i diritti umani, Mychelle Rieu, per anni assistente di Cohn Bendit – ha “avvertito che “il Qatar potrebbe aver interferito nelle decisioni del suo comitato” e che l’accordo concluso nel 2021 “EU-Qatar Aviation Agreement è ingiustamente penalizzante le linee aeree europee”, particolarmente per i voli verso il Golfo e l’Asia.
Infine, sul lato italiano, il giudice De Pasquale continua le indagini profilando una “Italian connection” ordita e diretta dall’ex deputato europeo socialista, Antonio Panzeri, che ha portato agli arresti di Niccolò Figà-Talamanca (segretario della Ong “No peace without justice”) e Francesco Giorgi (ex assistente di Panzeri e compagno della Kaili) e ai sigilli degli uffici e sequestro di materiale informatico di Davide Zoggia, ex sindaco di Jesolo e fedelissimo di Pier Luigi Bersani, di un altro ex assistente di Panzeri, Giuseppe Meroni, e di Donatella Rostagno (già collaboratrice di Panzeri sul Medio Oriente, attualmente nel team della deputata socialista belga Maria Arena e membro del board della Ong “Fight Impunity”) e di Federica Garbagnati (collaboratrice dell’eurodeputata socialista Alessandra Moretti).
La Commissione europea balbetta e tenta di proporre l’adozione di un “Codice etico”, il parlamento prima propone di istituire una “Commissione d’inchiesta” e poi ci ripensa. È evidente che l’ormai prossimo Consiglio europeo di dicembre dovrà in qualche modo affrontare la questione esplosa con il Qatargate. Giustamente, l’inviata di Huffington Post descrive “l’Ue come un Suk”, ma seriamente sostiene che converrebbe trovare il modo di “frenare” l’enorme palla di neve del Qatargate che rischia di travolgere l’intera Ue. Una Ue estremamente debole, molto confusa, in un momento delicatissimo con il riattivarsi delle tensioni, anche militari, in Kosovo, con la guerra in Ucraina che rischia l’escalation, e con gli Stati Uniti che dietro il paravento della Green Transition e della lotta all’inflazione sconvolgono le regole della concorrenza (europea) approvando un massiccio pacchetto di aiuti di stato alle imprese concorrenti di quelle europee.
Ciò ha spinto Ursula von der Leyen a pronunciare un sorprendente discorso a Bruges il 4 dicembre: “Ue e Usa siano uniti per realizzare Green Deal, ma dobbiamo ampliare il campo aiuti di Stato in Ue a parità condizioni con gli Usa”. Il tutto da inserire nell’incombente accordo Ue-Usa sul “data flow” e sul “Transatlantic Trade Agreement”. Un consiglio non richiesto agli amici europeisti: si vis pacem para bellum.
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