Il Consiglio dei ministri dovrebbe riunirsi martedì alle 9 in punto per varare il Documento di economia e finanza, l’ultimo perché dal prossimo anno le regole europee prevedono che i Governi presentino un piano strutturale di medio-termine. A essere maligni dovremmo ricordare il celebre detto di John Maynard Keynes: nel lungo periodo siam tutti morti. Ma il Patto di stabilità riformato sarà una cambiale anche per le generazioni future. Abbiamo usato il condizionale perché non è chiaro se il Def che prevede stringenti obblighi a breve termine sarà davvero pronto. Il ministro Giorgetti ci sta lavorando e ha anche rifiutato di partecipare al tradizionale Forum Ambrosetti di primavera. Inoltre, prima della riunione di governo dovrebbe consultarsi con Giorgia Meloni. I conti non tornano?



Cominciamo dalla crescita del prodotto lordo. Il ministro vorrebbe scrivere l’un per cento in più, che è un po’ meno di quel che aveva previsto nell’autunno scorso (+1,2%), ma meglio delle previsioni convergenti dell’Unione europea e della Banca d’Italia, cioè tra lo 0,6% e lo 0,7%. Siamo alle solite schermaglie delle percentuali? Si tratta di pochi decimali, tuttavia in un modo o nell’altro l’economia rallenta. Solo che un per cento suona meglio di zero virgola, è un messaggio politico un po’ più ottimistico e non fa certo male in piena campagna elettorale.



La seconda incognita riguarda il bilancio pubblico. Se leggiamo le stime dell’Istat sul 2023 possiamo vedere che l’ottimismo sparso a piene mani va quanto meno ridimensionato. Prendiamo l’impatto dell’inflazione. Per il puro effetto monetario la pressione fiscale ha superato il 50% e il fiscal drag è stato contabilizzato in 24 miliardi e 600 milioni di euro usciti dalle tasche degli italiani per entrare in quelle di Pantalone. Eppure il deficit pubblico è salito oltre il 7% del Pil, secondo alcuni potrebbe essere rivisto fino al 7,8%. Rimettersi in carreggiata sarà difficilissimo.



Ora l’inflazione è in rapida riduzione e s’avvia verso il fatidico due per cento annuo, il che dovrebbe spingere la Banca centrale europea a ridurre i tassi. Non sappiamo ancora quando, i Governatori delle banche nazionali sono divisi, forse a giugno o forse dopo. Tanto meno si capisce se il taglio sarà di mezzo punto come vorrebbero le colombe del sud o di un quarto soltanto come preferiscono i falchi del nord.

Troppe sono le incognite e, non potendo risolvere l’equazione, Giorgetti questa volta rinuncerà a indicare un obiettivo di riduzione del deficit, il Def dovrebbe limitarsi a una stima, registrando quel che era stato scritto nella nota di aggiornamento del settembre scorso, cioè tra il 4,3% e il 4,5%. La differenza è in ogni caso enorme, almeno tre punti di Pil, oltre i 60 miliardi, una cifra improponibile. L’anno prossimo non ci sarà più la cornucopia del Superbonus, ma quanto costerà quest’anno nessuno ancora lo può calcolare con esattezza.

Si dice che, anche alla luce del nuovo Patto di stabilità, il parametro fondamentale non è più il disavanzo, ma il debito. Non è del tutto vero perché il deficit deve scendere sotto l’1,5%, anche se tempi e modi vanno contrattati. Quanto al debito, si prevede una riduzione annua di un punto percentuale per chi supera il 90% del Pil. Il Def dovrebbe confermare la stima-obiettivo del 140%. L’anno scorso secondo l’Istat è stato del 137,3%. Quindi siamo di fronte a un aumento anche se non clamoroso. Siccome la crescita non potrà dare il contributo più rilevante per ridurre il debito, si spera che l’allentamento della politica monetaria consenta di risparmiare sul costo che l’anno scorso era arrivato a 80 miliardi di euro. In ogni caso, nemmeno questo sarà decisivo.

Giorgetti ha messo in conto che scatterà la procedura d’infrazione e questo darà più tempo, avviando una complicata e lunga trattativa con Bruxelles. In realtà è un problema in più, perché bisognerà portare il deficit sotto il 3%, prima ancora di presentare il piano di aggiustamento strutturale. L’Italia non è sola, ma il suo debito è il peggiore dell’Eurolandia. Dunque, rinviare non serve a nulla. Il ministro ha avviato la vendita di alcuni gioielli di famiglia, cominciando dal Monte dei Paschi di Siena. Sono state cedute già due tranche: il 20% l’anno scorso, il 12,5% adesso, incassando nell’insieme un miliardo e 300 milioni di euro. Il terzo pacchetto sarà collocato dopo giugno e Giorgetti pensa di vendere tutto entro la fine dell’anno. Spera che arrivi un compratore ben fornito, una banca importante, ma il Montepaschi potrebbe essere anche ceduto al dettaglio. Poi c’è l’Eni. Il Tesoro ne possiede il 33% e non vuole certo perdere il controllo, quindi procederà con i piedi di piombo, si parla di un 3% che potrebbe fruttare una trentina di miliardi. Poste, invece, verrebbe messa sul mercato vendendo il 29% in mano al Governo e sono circa 4 miliardi e mezzo. Le Ferrovie non si toccano.

Nell’insieme sarà una decina di miliardi, una goccia nel mare tempestoso di un debito che marcia verso i tremila miliardi di euro. Ma potrebbe diventare una boccata d’ossigeno almeno per confermare il taglio del cuneo fiscale e le tre aliquote dell’Irpef, operazioni valutate in una ventina di miliardi. Non lo sapremo prima delle elezioni europee e nemmeno subito dopo. Se ne parlerà a settembre quando saranno più chiari anche gli equilibri nella maggioranza di governo. Sì, perché il voto di giugno è diventato uno spartiacque per gli equilibri politici dell’Italia, un Paese eternamente alle urne, sia che si tratti di eleggere un Sindaco, un Presidente di Regione o il Parlamento europeo. Stabilità vo’ cercando ch’è sì cara… (il Sommo poeta ci perdoni).

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