Caro direttore,
il bell’articolo del 31 gennaio Da Mussolini al ’68 quanti guai da chi ha separato intellettuali e popolo di Angelo Campodonico ha toccato, tra le tante cose, il tema dell’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale. Tra alcuni amici che hanno la bella consuetudine di non lasciare cadere nel vuoto le provocazioni culturali si è sviluppato uno scambio di opinioni, che mi hanno appassionatamente coinvolto, sulle motivazioni del conflitto. Per alcuni riconducibili alla volontà di cancellazione di un grande impero cristiano da parte di un’Europa dominata allora da gruppi di potere massonici o, comunque, seriamente imbevuti di ideologie di matrice agnostica e anticlericale. Humus peraltro presente anche nell’Europa di adesso.



Vero, verissimo, che nelle terre imperiali il giacobinismo non attecchì mai veramente. E per buona parte del XIX secolo le popolazioni rimasero impermeabili alle ideologie anticlericali e custodi di una pietas di cui si vedono ancora oggi le tracce nel nostro ex Lombardo-Veneto e nelle regioni che furono imperiali fino al 1918. Non solo. In Lombardia, in particolare, il retaggio della Felix Austria di Maria Teresa è da molti e tuttora ritenuto un elemento fondante del clima di pacifica operosità, di benefica solidarietà e di efficiente amministrazione che per tanto tempo ha accompagnato la storia regionale. Dove la solidità della tradizione cattolica si è intrecciata con una gestione maternalistica del potere che favoriva l’industriosità in tutti gli strati sociali, le scienze e le arti. Ancor oggi a Milano, nonostante le Cinque Giornate, Amatore Sciesa e tante altre vicende, il termine austro-ungarico non comporta necessariamente implicazioni negative. L’opera di Maria Teresa ha lasciato più tracce delle repressioni di Francesco Giuseppe. Così come accadeva e accade in tante terre della Corona.



Ma quanto di questo sussisteva ancora agli albori del XX secolo? La parabola dell’impero si è conclusa tra la tragedia e il massacro della guerra e la luminosa figura dell’ultimo sovrano, Carlo I d’Austria, che salito al trono a 29 anni regnò dal 1916 al 1918 e che, non a caso, volle partecipare al primo Te Deum di fine anno dopo il crollo del suo impero (31 dicembre 1918) per ringraziare del dono della pace. È stato, non senza strascichi polemici, beatificato da Giovanni Paolo II nel 2004 per aver seguito la vocazione del cristiano alla santità anche nell’azione politica. In particolare nella qualità di paladino dell’assistenza sociale. Lo stesso Wojtyła ebbe a raccontare che il nome di Karol gli fu dato in onore dell’imperatore Carlo I di cui suo padre era grande ammiratore.



Se Carlo I è stato una persona la cui santità si riverberava in magnanimità e saggezza, il suo nome in ogni caso non basta a risollevare la dinastia degli Asburgo dalla damnatio memoriae. Il suo breve regno non poté cancellare il fatto che l’eredità dell’impero multietnico e multireligioso, simbolo della continuità di un’identità continentale europea sintetizzata nei “due soli” del De Monarchia, si era ormai sfaldata nel decadentismo della corte viennese. Nel ricordo dell’impero, pochi decenni fa ancora vivo nelle terre del centro Europa, quando ci si interrogava sulla sua dissoluzione si finiva per riconoscere che la “visione” aveva perso ogni vigore e molta della sua credibilità. Non tanto per un giudizio moralistico sui costumi libertini che avevano accomunato regnanti, nobiltà e ruling class in generale a quello che avveniva tra i loro pari in qualsiasi altro Paese d’Europa, ma piuttosto per il fatto di aver preteso di tenere in piedi l’impero con un impianto ideologico ridotto a un simulacro ormai privo di ogni riferimento alla realtà. Il cui principale pilastro, l’imperatore Defensor Fidei, custode e protettore della Chiesa e della dottrina, non riusciva più a mascherare l’evidenza di una religio instrumentum regni.

Un regno ormai affaticato dallo sforzo di tenere insieme i suoi antichi pezzi ma nessuna capacità di produrre una visione politica e culturale, di assumere una funzione di leadership innovativa verso il resto d’Europa, oltre che verso i “suoi popoli”. Solo uno stanco potere clericale, nel senso che il clero a cominciare dai vescovi doveva essere asservito, dove il collante della repressione prevaleva e la capacità di comprendere le richieste di partecipazione democratica latitava. Non dimentichiamo che la dichiarazione di guerra del 1914 fu opera di Vienna, sulla scia di un attentato terroristico che aveva eliminato un erede al trono che nella stessa capitale austriaca forse non era proprio ben visto da tutti.

Le cicatrici lasciate da tutto questo nei popoli dell’impero non sono poche. Non solo geopolitiche, come si usa dire adesso, ma anche in termini di scetticismo nei confronti dell’autorità politica e religiosa. Certo, molti Paesi sono stati travolti poi da nazismo e comunismo. La massoneria, diventata poi fortissima, ci ha messo del suo, come tutto il campionario di ideologie finite nel frullatore della storia. Credo però che, ad esempio, molte delle difficoltà che il processo di unificazione europea trova nel nordest del continente possano essere frutto di un pensiero che ancora serpeggia sottovoce: non è che ci rifilano un nuovo impero?

Problematici anche molti riflessi sulla vita della Chiesa. Lo stesso proliferare di movimenti di clero collaborazionista, filocomunista in generale ma anche filonazista in anni precedenti, veniva spesso letto come l’eredità tossica di una consuetudine di prona subordinazione dell’altare al trono di turno, portatrice di benefici personali ai chierici compiacenti. Come contropartita, una caduta di autorevolezza e credibilità nel popolo dei credenti, che trovava la propria saldezza solo stringendosi attorno a figure di eroica luminosità, condividendo con esse rischi e, spesso, persecuzioni. Situazioni curiosamente attuali anche oggi nelle parti del mondo dove ancora si coltivano velleità “imperiali”. Non è solo il caso della Cina, ma anche del disegno di renovatio imperii della Russia putiniana. Là dove, significativamente, all’inizio dello scorso secolo la dinastia dei Romanov si era inconsapevolmente incamminata in una spirale di autodistruzione simile a quella, altrettanto inconsapevole, dei loro cugini viennesi. Il discorso si fa lungo e meritevole di approfondimenti più sistematici e di valutazioni e giudizi di più ampia portata.

Ad ogni modo Franz Josef a Vienna si vende ancora bene tra i turisti e gli amanti del valzer. In accoppiata di co-marketing con Sissi, poi, va al massimo. Di questi tempi un creativo pubblicitario potrebbe suggerire a qualche operatore di vacanze tematiche uno spot tipo: “Sono Cecco, sono un maschio, sono cristiano, mi piace Strauss”. Dovrebbe funzionare.

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