Nel primo trimestre dell’anno, il Pil degli Stati Uniti è cresciuto del 6,4% su basse annua, facendo registrare la miglior performance dal 2003, eccezion fatta per il terzo trimestre dello scorso anno, quando, a seguito delle riaperture post-lockdown, la crescita era stata del 33,4%. Il dato arriva dopo il discorso al Congresso di Joe Biden a 100 giorni dall’insediamento alla Casa Bianca, durante il quale il Presidente ha annunciato l’intenzione di varare un nuovo piano (American Families Plan) per sostenere con 1.800 miliardi di dollari nei prossimi 10 anni le famiglie con redditi più bassi attraverso una riforma fiscale che penalizzerà i più ricchi, gli investimenti in Borsa e i beni ereditati.



Considerando gli aiuti di emergenza già varati (1.900 miliardi di dollari), il piano infrastrutturale (1.800 miliardi) e l’ultimo dato sul Pil, gli Usa sono instradati verso una solida ripresa? «È presto per dirlo. Indubbiamente – spiega Mario Deaglio, Professore emerito di Economia internazionale all’Università di Torino – negli Stati Uniti c’è un rimbalzo, dovuto anche alle misure di emergenza che sono state adottate già nell’ultima fase della Presidenza Trump. Un po’ come i nostri ristori, si tratta di tamponi sul breve che però non cambiano le cose sul medio termine».



Forse la differenza può farla il piano di investimenti infrastrutturali voluto da Biden, che ancora deve essere approvato dal Congresso.

Certamente. L’idea è quella di reperire le risorse necessarie anche aumentando le imposte sui profitti aziendali e sulle multinazionali. Dai tempi di Bush Jr., infatti, c’era la convinzione che una minore tassazione su quest’ultime avrebbe contribuito a mantenere la leadership mondiale dell’economia americana. In realtà, le risorse liberate sono state utilizzate per fare acquisizioni anziché per sviluppare nuove tecnologie. E ciò ha anche contribuito ad accrescere il divario sociale nel Paese.



Divario che il Presidente sembra voler diminuire con l’American Families Plan appena presentato. Cosa ne pensa?

Credo che agendo in particolare sul sistema sanitario e su quello scolastico, sostenere di fatto il reddito delle classi medio-basse e basse sia il mezzo più potente nel lungo periodo per portar fuori gli Stati Uniti dalla situazione di quasi guerra civile in cui si trovano. È quindi una cosa buona. Che poi Biden ci riesca è un altro paio di maniche.

Per via dell’opposizione dei Repubblicani?

Non è tanto questo il punto, quanto capire se tutte queste risorse immesse assieme nell’economia americana non provochino inflazione. Questo è il vero pericolo su cui non esistono certezze, perché non c’è mai stato qualcosa di analogo prima.

Intanto Wall Street ha raggiunto nuovi record e Biden risulta essere il Presidente sotto cui la Borsa è cresciuta maggiormente nei primi 100 giorni di mandato. È un segnale del crescente scollamento tra finanza ed economia reale?

Sì, intanto perché questo aumento della Borsa è un valore medio che al suo interno nasconde fortissime disparità: sono cresciuti in maniera incredibile solo pochi titoli. Inoltre, ci sono dei fenomeni difficili da interpretare, come il Bitcoin, o che possono nascondere insidie, come il boom delle Spac (Special purpose acquisition company), ovvero società che non hanno uno scopo specifico se non quello di acquisire un’altra società non ancora identificata. Può darsi quindi che siano un buon affare, ma potrebbero anche rivelarsi al contrario un cattivo affare. Ciò nonostante sono molto gettonate tra gli investitori.

Finora abbiamo parlato degli Stati Uniti. Cosa può dirci invece dell’Europa e del suo Recovery fund?

È un fondo buono, perché finanzia progetti positivi, come quelli relativi alla transizione ecologica e alla digitalizzazione, che sono fortemente guidati dagli Stati, a differenza di quel che avviene negli Usa. Tuttavia, ho l’impressione è che non basti.

Da che punto di vista?

C’è il rischio che la spinta alla crescita non sia sufficiente nel medio termine. Ci vorrebbe qualche altra cosa.

È un problema che riguarda tutti i Paesi europei?

Quelli più grandi, come Francia e Germania, pensano già al lungo periodo, l’Italia ancora troppo poco. Nelle tante pagine del Pnrr, per esempio, non si riesce a cogliere un vero piano di crescita, una visione del Paese che vogliamo essere tra 10-15 anni. È chiaro che una cosa del genere non si può realizzare in poche settimane, ma occorre un lavoro lungo. Sarebbe bene cercare di capire di cos’hanno bisogno le nostre aree di eccellenza, tra cui sta entrando a pieno titolo anche l’agricoltura, per continuare a crescere e potersi espandere nei mercati mondiali.

(Lorenzo Torrisi)

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