Uno degli snodi fondamentali per la ripresa, che anima la gente, è senz’altro il lavoro. Deve trattarsi, naturalmente, di una ripresa attiva, che non può certo essere fatta per decreto, non essendo pensabili né piani creati a tavolino, quali le assunzioni nel pubblico impiego degli anni ’80, quasi sempre in prossimità di campagna elettorale, né, per tornare al presente, prolungamenti sine die del divieto di licenziamento attuato nel 2020 per effetto della pandemia, come vorrebbero certi sindacati.
Mi pare più sensato concentrare questa misura su settori ancora più fragili e colpiti, come avvenuto con l’ultimo decreto legge; diversamente, si costringerebbero molte aziende a dichiarare fallimento, anche solo per aggirare l’ostacolo (cosa, del resto, già ora possibile).
Il “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” (Pnrr) prevede un ampio capitolo, collocato all’interno della 5° missione (“Inclusione e coesione“), alla quale sono destinati 19,81 miliardi di euro, di cui 6,6 alle politiche per il lavoro. Si tratta di una missione – si legge nel Piano – che persegue obiettivi trasversali a tutto il Pnrr: sostegno all’imprenditoria femminile e contrasto alle discriminazioni di genere, incremento delle prospettive occupazionali dei giovani, riequilibrio territoriale, sviluppo del Mezzogiorno e delle aree interne. In questo contesto, le politiche del lavoro mirano a incrementare il tasso di occupazione, tramite una formazione adeguata ad agevolare le transizioni lavorative, aumentare le competenze e la qualità dei programmi formativi dei disoccupati e dei giovani.
L’obiettivo che ci si pone è assai ambizioso: adottare il “Programma Nazionale per la Garanzia Occupabilità dei Lavoratori” (GOL), ossia un programma di accompagnamento, erogazione di servizi specifici e di progettazione professionale personalizzata e il “Piano Nazionale Nuove Competenze” per ridisegnare gli skill professionali dei lavoratori in transizione e disoccupati, beneficiari di prestazioni a sostegno del reddito, con un focus specifico sui giovani. L’adozione di entrambi i piani è prevista entro il quarto trimestre 2021 e si sviluppa nel triennio 2021-2023, disponendo 4,4 miliardi di euro. La riforma si integra con il rafforzamento della lotta al lavoro sommerso nei vari settori dell’economia e con il potenziamento dei Centri per l’Impiego, chiamati a convertirsi da centri amministrativi – quali sono stati per lo più sinora – a veri intermediari tra domanda e offerta di lavoro, favorendo l’incontro tra servizi di qualità e presa in carico della persona.
Per rimanere a queste prime voci, mi pare si vada nella direzione giusta. A mio avviso, tuttavia, vi è una grande premessa a qualsiasi discorso sul lavoro, per la quale giova rammentare l’8° obiettivo dell’Agenda Onu 2030 (“Lavoro dignitoso e crescita economica“): “Entro il 2030, raggiungere la piena e produttiva occupazione e un lavoro dignitoso per tutte le donne e gli uomini, anche per i giovani e le persone con disabilità, e la parità di retribuzione per lavoro di pari valore” (8.5). Per comprenderne l’importanza, basta riflettere, a mio avviso, su alcuni fatti di cronaca recente: una giovane ragazza, apprendista tessile, risucchiata da un orditoio, privato di alcune misure di sicurezza per aumentarne la produttività; 15 persone precipitate da una funivia, cui è stato bloccato il freno di emergenza per non ridurre le corse e, quindi, i guadagni; un manifestante di una catena di supermercati travolto e ucciso da un autista in panico per il ritardo nelle consegne, che avrebbe potuto compromettere il già esiguo salario; giovani braccianti stroncati da un infarto dopo 12 ore di lavoro sotto il sole cocente del Mezzogiorno, per accrescere la raccolta di frutta e verdura da destinare alle nostre tavole.
Tali episodi mi sembrano avere un tratto comune nella mentalità liberista che assoggetta l’uomo ai ritmi di produzione e di guadagno, normalmente concentrato nelle mani di pochi, che rappresenta da decenni una forma insidiosa di schiavitù, espropriando l’uomo della sua natura (su questo, almeno in parte, Marx aveva ragione!). Si tratta di un punto sul quale trovo cruciale il bisogno di un cambiamento, anche per non sprecare gli stimoli economici di qualsiasi Pnrr. Cambiare su questo significa davvero cambiare paradigma: “Sentiamo la mancanza di un orizzonte condiviso in cui riconoscere noi stessi e gli altri. E la sensazione di essere schegge in balia degli eventi in un mondo sempre più complesso è all’origine di un malessere diffuso […]. Veniamo da una stagione in cui abbiamo creduto che fosse possibile sostituire a qualsiasi cornice di riferimento condivisa l’idea del benessere come unico obiettivo davvero perseguibile […]. Ciò di cui avvertiamo il bisogno è una nuova condizione in cui ritrovare la nostra capacità di esprimerci come persone libere e di riconoscerci come comunità inclusive“. L’autore (M. Magatti, “Cambio di paradigma. Uscire dalla crisi pensando il futuro”) si riferisce alla crisi del 2008, ma le sue parole rimangono di scottante attualità.
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