Le prospettive per l’economia italiana restano ancora incerte. Il terzo trimestre farà chiaramente registrare un progresso rispetto al secondo, segnato ancora dagli effetti del lockdown, ma è difficile dire quanto si potrà frenare il crollo del Pil di questo 2020. L’Ufficio Studi di PricewaterhouseCoopers Italia, sulla base delle previsioni di diversi stakeholder rilevanti, stima una contrazione finale dell’11,1%. Andrea Toselli, Presidente e Amministratore delegato di PwC Italia, oggi tra gli ospiti del Meeting di Rimini, non nasconde la difficoltà esistente nel riuscire a prevedere quando potrà esserci un svolta. «Ci sono tante voci discordanti – ci spiega – e in tale confusione è complesso avere una reale percezione su due fattori in questo momento importanti: il grado di preparazione nell’affrontare un’eventuale seconda ondata di contagi e l’effettivo arrivo alle imprese della liquidità che è stata loro promessa».
Dal vostro osservatorio privilegiato di leader nei servizi professionali e/o all’impresa cosa state percependo da parte delle imprese in questo frangente?
Stiamo percependo una grandissima voglia di ripresa e di riscatto. C’è un grandissimo impegno per cercare di superare questa fase. In questo momento il timore più grande è che in autunno possa esserci un nuovo lockdown. La speranza è che anche di fronte a un aumento dei contagi vi sia la possibilità di gestire eventuali focolai senza l’adozione di provvedimenti come quelli che sono stati presi in primavera, che, ovviamente, erano inevitabili. Nessuno, infatti, era preparato, mentre ora ci sono state settimane e mesi per pensare a come agire nel caso di una seconda ondata. L’aspettativa è che ci sia un piano d’azione per evitare quello che sarebbe il colpo di grazia per l’economia del Paese.
Che tipo di provvedimenti servirebbe per superare questa crisi?
Innanzitutto occorre mettere in sicurezza e proteggere le aziende. Sono convinto che senza di esse non si possa creare quel benessere che non può certo arrivare per legge. Occorre quindi garantire alle imprese la liquidità necessaria per superare questo momento e avere una sufficiente tranquillità, una fiducia indispensabile per investire. È chiaro poi che il Paese ha bisogno di interventi importanti sul fronte della ricerca, dell’istruzione, delle infrastrutture. L’elenco di cose da fare è ben noto, ci vuole la tenacia per concretizzarle.
Per questo obiettivo torneranno anche utili le risorse del Recovery fund.
Non è ancora del tutto chiaro quando, come e per chi arriveranno queste risorse. Di certo non si può sprecare un’altra opportunità per migliorare la situazione non solo presente, ma anche per le generazioni future. Occorre quindi che questi fondi siano utilizzati per investimenti che, tramite il famoso effetto moltiplicatore, aumentino il reddito, il Pil, agendo quindi positivamente sulla fiducia delle imprese e facendo al contempo diminuire il peso del debito che grava sulle spalle dei giovani.
Una spinta al Pil, pari all’1,2%, secondo il vostro Ufficio Studi, potrebbe arrivare se tutti i lavoratori che ne hanno la possibilità usufruissero dello smart working un giorno a settimana.
Mediamente un pendolare spende un’ora al giorno per spostarsi tra casa e luogo di lavoro e abbiamo calcolato, mettendo insieme diverse statistiche, che la maggior produttività generata da quel tempo altrimenti perso, ma recuperato tramite lo smart working, potrebbe avere un impatto positivo sul Pil di poco superiore al punto percentuale. Non bisogna poi trascurare gli effetti benefici per l’economia dei tanti comuni in cui risiedono i pendolari. Ci sarebbero ricadute positive per le piccole comunità locali che nel corso degli anni hanno invece subito un impoverimento.
Di smart working si è parlato molto nelle ultime settimane. C’è chi ritiene che per tante persone si sia trattato più di telelavoro…
In effetti è così. In quei settori in cui è possibile il lavoro a distanza ci sono comunque delle attività che non possono essere svolte da remoto, compresi quei semplici momenti informali di allineamento, che in presenza non richiedono molto tempo, ma che invece rischiano di portare alla nascita di problemi importanti se non si è sul luogo di lavoro. Per questo credo occorra un’alternanza tra l’attività in remoto e quella in presenza. Noi stessi stiamo rivedendo i processi aziendali in tale direzione.
Come si può distinguere correttamente quali attività poter svolgere in smart working e quali no?
Ovviamente ogni professione ha una specificità che rende difficile poter fare una distinzione generale che valga per tutte. Ritengo occorra distinguere tra le attività che possono essere svolte autonomamente e sulla base di informazioni fattuali, per le quali effettivamente essere nella stessa stanza o a chilometri di distanza è sostanzialmente irrilevante, da quelle che invece richiedono un’attività congiunta, con uno scambio di idee, quale un brainstorming che a volte effettivamente aiuta a risolvere i problemi. A seconda dell’attività di ogni persona, si possono individuare dei task individuali e dei task collettivi, distinguendo così a monte cosa può essere fatto in remoto e cosa no.
Lei oggi partecipa al Meeting di Rimini che ha visto in apertura il discorso di Mario Draghi improntato all’attenzione per i giovani, concetto ribadito il giorno successivo dal Presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo che ha ricordato i tanti cervelli italiani che emigrano. Proprio da una vostra ricerca risulta che il 20% dei giovani talenti che lavorano all’estero, dopo lo scoppio della pandemia, sarebbe propenso a tornare in Italia. Un’occasione importante per il nostro Paese.
In questo dato vedo un forte attaccamento al Paese e alla nostra cultura nazionale, che spesso affiora nei momenti di emergenza. Questo vuol dire che c’è la voglia di dare il proprio contributo da parte di giovani che, ricordiamolo, all’estero percepiscono un buon stipendio e godono di un clima economico favorevole. Non è quindi vero che c’è una generazione che non ha voglia di tornare a casa. Semmai è vero che questa generazione starebbe volentieri nel nostro Paese se l’ascensore sociale non fosse bloccato, se fosse maggiormente offerta la possibilità a chi vuole impegnarsi nel lavoro di realizzarsi professionalmente e personalmente.
Questo clima sfavorevole dipende più dalle imprese o dalle istituzioni?
Credo che sia frutto di una sorta di circolo vizioso alimentato da entrambi i fattori. Abbiamo una classe imprenditoriale che talvolta non è all’altezza o in questo Paese fare impresa è più difficile che altrove? Forse sono vere entrambe le cose. Fortunatamente un nostro punto di forza resta la piccola impresa di eccellenza che può crescere, che può fare la differenza e diventare media e grande. Credo che dobbiamo cercare di fare in modo che ciò possa avvenire tramite i giusti investimenti.
(Lorenzo Torrisi)