Il capitalismo appare come l’araba fenice che risorge dalle proprie ceneri. Gli ultimi decenni hanno visto crisi particolarmente gravi, come quella del 2008, che è costata un prezzo altissimo come distruzione di ricchezza e di benessere, ma hanno visto anche prodigiosi recuperi sulla scia di un’innovazione tecnologica che sta cambiando profondamente gli equilibri economici. Fenomeni come la globalizzazione, intesa come apertura sempre più vasta all’economia di mercato, hanno avuto altrettanti momenti di espansione e di contrazione.
La stessa realtà di fondo del capitalismo è ora messa duramente alla prova dalla necessità di un forte intervento degli Stati nell’economia per ridurre il più possibile gli effetti sociali della pandemia e delle misure che sono state adottate per contrastarla.
Per queste ragioni riflettere sul capitalismo è particolarmente importante e attuale, soprattutto se non ci si ferma all’analisi della minore o maggiore efficienza dei mercati, ma si ricercano i valori di fondo che muovono l’economia. Anche perché il capitalismo non è un impianto teorico, non è un dato di natura, ma è una dimensione in cui le scelte delle persone sono fondamentali, è quindi una realtà che nasce dalla prospettiva culturale, dai valori oltre che dagli interessi di ciascuno.
Luigino Bruni in uno dei suoi ultimi libri (“L’arte della gratuità, come il capitalismo è nato dal cristianesimo e come lo ha tradito”, ed. Vita e pensiero, pagine 116, 13 euro) raccoglie una serie di articoli pubblicati la domenica su Avvenire in cui la storia economica viene analizzata intrecciandola con la prospettiva della fede da una parte e della storia della Chiesa dall’altra. È un capitolo del viaggio che Bruni, docente di economia politica alla Lumsa e coordinatore del progetto Economia di Comunione del movimento dei focolari, compie ormai da dieci anni rileggendo i grandi libri della Bibbia e ricercando le ragioni fondamentali di un’economia basata sulla fede.
Il rapporto tra Chiesa ed economia non è stato mai un rapporto facile. La ricchezza è condannata più volte nelle pagine evangeliche e l’esaltazione della povertà è una costante nella vita dei Santi e nelle parole dei Pontefici. Ma se si guarda all’evoluzione della cristianità si può scoprire la grande differenza tra la ricchezza come fine e la ricchezza come strumento, tra l’avarizia e la ricerca di quel profitto che è indicato nell’enciclica Centesimus annus come un indicatore indispensabile dell’efficienza delle imprese. Così come si può riscoprire come il francescanesimo medioevale sia stato all’origine del sistema bancario (emblema del capitalismo) con la creazione nell’Italia centrale di quei Monti di pietà che permettevano alle attività economiche di superare i momenti difficili.
La tesi di Bruni, resa esplicita nel titolo, è che lo sviluppo economico ha tradito le basi originarie, basi che avevano la fede come pietra angolare, e ha trasformato lo sviluppo economico in una dinamica spinta dalla ricerca della ricchezza come peraltro è dimostrato dall’opera più famosa del sociologo Max Weber che ha fatto risalire all’etica protestante, e non all’impegno dei cattolici, lo spirito del capitalismo.
Ma il titolo del libro evoca anche una parola “gratuità” che è da anni uno dei cavalli di battaglia di Luigino Bruni e che diventa centrale nella volontà di ricondurre a unità la dimensione economica e la fede cristiana. Una gratuità che non è un’istituzione e nemmeno una regola (pur non dimenticando l’importanza delle regole nella vita monastica), ma che è la riscoperta passo passo del rapporto tra le persone, un rapporto fondato sulla “gratitudine”, sul riconoscere l’importanza dell’altro nella mia vita.
È questa prospettiva che può impedire al capitalismo e all’economia di diventare una nuova religione, una fede nelle cose e negli algoritmi più che nelle persone.
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