La guerra in Ucraina continua ad avere conseguenze anche economiche. I prezzi delle commodities energetiche proseguono la loro salita e il ministro della Transizione ecologica Cingolani ha detto ieri che possono volerci fino a 30 mesi per rendere il nostro Paese indipendente dal gas russo.
Vi sono inoltre problemi determinati dalle materie prime che arrivano dall’Ucraina, come l’olio di semi di girasole molto utilizzato nell’industria alimentare, o dalla Russia, da cui dipende una buona fetta delle forniture di ghisa per le fonderie italiane. Come spiega Marco Fortis, direttore della Fondazione Edison e docente di Economia industriale all’Università Cattolica di Milano, «non è semplice proiettare gli effetti di questo conflitto sull’economia, anche perché non sappiamo quale esito avrà, né quanto potrà durare.
La situazione è molto magmatica e non è certo un momento in cui gli economisti possano sedersi a un tavolo davanti a un modello econometrico e poter fare delle previsioni canoniche come si fanno in tempi normali. Immaginando che il conflitto e le sue conseguenze perdurino per almeno sei mesi si può in ogni caso trarre una conseguenza economica».
Quale?
Già durante l’inverno ci sono state ondate inflattive significative causate dai rincari delle materie prime, in particolare energetiche. In caso di una perdurante situazione bellica, o di un suo aggravamento, ci dobbiamo aspettare un inasprimento ulteriore della questione inflattiva, che non è ancora ben chiaro nelle sue dimensioni reali e complessive per il 2022.
Questo per via dei continui aumenti delle materie prime energetiche?
Non solo. L’agricoltura deve fronteggiare sia i rincari o la scarsità delle materie prime, tra cui i fertilizzanti prodotti in Russia, sia gli alti prezzi energetici, visto che è uno dei settori più energy intensive. Questo significa che anche i costi della produzione agricola sono destinati a salire e di conseguenza ci sarà un’inflazione da beni alimentari che si materializzerà in maniera sempre più significativa. Considerando anche i rincari delle bollette, per quanto mitigati da interventi governativi, c’è da attendersi un calo dei consumi delle famiglie, vista l’erosione del loro potere d’acquisto.
Con quali effetti per il Pil?
Difficile quantificarli, ma sappiamo che i consumi rappresentano circa due terzi della domanda aggregata, quindi una loro minima flessione ha un impatto immediato sul Pil, che probabilmente si vedrà nel secondo trimestre dell’anno. Considerando come stanno andando questi primi tre mesi del 2022, è facile attendersi un primo semestre contraddistinto da un rallentamento significativo dell’economia in tutta Europa.
Guardando al mondo produttivo italiano, quali settori rischiano di più?
Ci sono settori usciti martoriati dal Covid, come il turismo, che non potranno non risentire di un avvitamento del conflitto. Se, come probabile, a causa dell’inflazione si ridurranno le spese per i consumi di beni, lo stesso accadrà per le spese per i consumi di servizi. Anche le famiglie di Paesi europei che vengono in vacanza in Italia spenderanno meno. Ci sono settori che speravano di rinascere dopo il Covid e si trovano di fronte uno scenario non certo rassicurante: speriamo che il turismo possa sopportare un ulteriore anno almeno di difficoltà.
E per quanto riguarda la manifattura?
Si è molto rafforzata negli ultimi anni e ci sono settori oggi in grado di sopportare tempi difficili, di stare in apnea. Questo non vuol dire che se la passino bene. Pensiamo alla sofferenza di un settore molto brillante come quello delle piastrelle, dove non mancano certo gli ordinativi, ma i costi di produzione stanno diventando proibitivi.
Ci sono settori che subiranno contraccolpi a livello di export?
Complessivamente, l’export verso la Russia rappresenta l’1,6-1,7% del totale, ma per alcuni prodotti il mercato russo non è irrilevante. Basta pensare alle calzature, al caffè torrefatto, ai preparati per capelli, ai vini e spumanti o al valvolame industriale per impieghi petrolchimici. Occorre tuttavia evidenziare una cosa.
Quale?
Che l’Italia ha una tale diversificazione del proprio export, sia dal punto di vista geografico che dei prodotti, che a meno che il conflitto non si trasformi in una tensione permanente su tutta la frontiera dell’Est Europa non rischia di trovarsi in difficoltà, a differenza di altri Paesi. Tanto per dare un’idea, stando ai dati 2019, i primi cinque prodotti esportati dall’Italia valgono solo l’8,2% dell’export totale, mentre in Germania il 12,5%, in Francia il 14,9%, in Corea del Sud il 25%, in Canada il 27,5%, in Svizzera il 47%.
Tutto questo cosa significa?
Che qualche settore certamente soffrirà, ma possiamo contare su tanti altri per avere una bilancia commerciale in attivo. In questa situazione incerta è l’unico aspetto positivo che vedo con chiarezza. Si tratta di una magra consolazione, perché il vero problema all’orizzonte è l’erosione dei consumi.
(Lorenzo Torrisi)
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