Il 12 aprile Anpal Servizi ha pubblicato il Rapporto 2022 sulla domanda di lavoro per i bacini dei Centri per l’impiego. Il rapporto fa parte del programma statistico nazionale e cerca di stimare quanto tempo ci si mette in media a trovare un lavoro una volta che se n’è perso uno. La stima è fatta attraverso le comunicazioni obbligatorie che i datori di lavoro mandano in via telematica ogni volta che avviano o chiudono un contratto. Mettendo in fila i diversi contratti di una persona e contando la distanza fra la fine di un contratto e l’inizio di quello dopo si ottengono i dati che vengono presentati qui.
In media sono necessari 93 giorni per ritrovare un lavoro. Attenzione, però, non tutti lo ritrovano. Lo studio stima che il 60,2% delle persone che hanno perso il lavoro fra luglio 2016 e giugno 2021 ha trovato lavoro entro 12 mesi (6,6 su 11 milioni di persone).
I dati presentati sono molti, ma restiamo su questo indicatore, il numero medio di giorni necessari. Gli uomini si ricollocano più velocemente: 88,1 giorni contro i quasi cento (99,8) necessari per le donne. Per i lavoratori con alte competenze bastano in media 60,9 giorni per ricollocarsi, mentre il periodo si allunga per i lavoratori con medie competenze (92,7 giorni) e a basse competenze (105,1 giorni). La distanza fra nord e sud si vede anche in questo dato: in Calabria per trovare una nuova occupazione servono 50 giorni in più rispetto alla Lombardia (125,3 contro 75,2).
Ma queste distanze sono una conferma. È più interessante vedere se le persone progrediscono o peggiorano cambiando lavoro. Le informazioni ce lo fanno capire: nel 55% dei casi la riattivazione avviene con la stessa qualifica professionale e per oltre i due terzi (67,4%) con la stessa tipologia contrattuale, per un terzo delle persone il datore di lavoro è lo stesso. Sono soprattutto i lavoratori che svolgevano con il precedente contratto mansioni non qualificate a trovare contratti con la stessa qualifica professionale (64,5%), mentre quasi il 60% dei lavoratori con alte qualifiche si riattiva con una qualifica differente. I lavoratori che vedono migliorare la propria condizione professionale sono prevalentemente al nord. In Lombardia sono situate 34 aree su 58 a livello nazionale dove si registrano i valori più alti dell’indicatore di miglioramento della carriera.
Insomma, se sei poco qualificato continui a fare la stessa cosa, ma a intermittenza; la carriera di più della metà dei lavoratori è una carriera bloccata e il mercato funziona reimmettendo gli stessi più o meno allo stesso posto, con periodi più o meno lunghi di interruzione.
Il rapporto contiene molto altro, ma è ora di farsi qualche domanda che riguarda le politiche del lavoro:
– dove sono andati tutti quelli che non si sono ricollocati? Sono il 40% circa, sono a casa? Hanno fondato un’impresa? Hanno aperto una partita Iva? Sono a prendere sussidi? (lo studio ha escluso i pensionandi, quindi non chiediamoci se sono in pensione). I detentori delle informazioni citate sono tutti organi dello Stato e sarebbe bene che si organizzassero per far sapere a chi si occupa di reimpiego a vario titolo dove andare a cercare i lavoratori perduti. Non ci risulta che l’analisi statistica sia una violazione della privacy, mentre la resistenza della Pa a condividere informazioni è sicuramente un costo per tutti i cittadini.
– Le politiche del lavoro moderne hanno obiettivi di ricollocazione, che vengono misurati spesso con gli stessi dati usati da questo report. Ma la domanda sorge spontanea: non è che anche senza politiche le persone si ricollocherebbero lo stesso? E quali sono le politiche che fanno migliorare? E quelli che migliorano, perché migliorano? Solo perché stanno al nord? È solo merito del mercato o fanno qualcosa che vale la pena di insegnare ad altri? Anche qui i metodi di analisi controfattuale non mancano, e la comparazione delle politiche, anche qualitativa e non solo quantitativa, sarebbe possibile.
Misurare gli obiettivi è sempre necessario, ma dobbiamo imparare anche a misurare le conseguenze di quello che facciamo nel medio periodo, non solo a centrare indicatori di breve fissati giustamente da un piano, ma spesso fissati in modo da essere quasi sicuramente raggiunti. Se una persona resta tutta la vita a far dentro e fuori da una mansione povera, va bene così? Lui cosa ne pensa? Glielo chiediamo?
È dello scarto che dobbiamo occuparci, perché in un mercato del lavoro in restrizione il Paese non si può permettere di scartare nessuno. Per fare questo abbiamo anche bisogno di nuovi criteri di misurazione di obiettivi, impatti e conseguenze delle politiche su cui spendiamo, giustamente, denaro pubblico.
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