Coprifuoco in Lombardia, Lazio e Campania. Zone rosse in grandi città come Genova e Roma. Sardegna pronta a una nuova stretta sui collegamenti da e per il continente. L’indice di contagiosità che si avvicina paurosamente a 2. Contagi oltre quota 16mila, che tendono a raddoppiare nel giro di pochi giorni. Carica virale altissima nell’80% dei positivi. Il puzzle dell’emergenza Covid ogni giorno aggiunge una nuova tessera e l’immagine che se ne ricava sembra portare, dritto per dritto, verso un nuovo lockdown. Il governo ha più volte ribadito che il paese non può permetterselo, ma il virus sembra farsi (drammaticamente e violentemente) beffe di confini geografici, divieti dei Dpcm e ordinanze locali. Come una piovra invisibile, l’ombra del lockdown allunga i suoi tentacoli sull’Italia.
In questo distopico ritorno a una sceneggiatura che gli italiani – cittadini e imprese – quest’estate pensavano di aver lasciato alle spalle, la triste contabilità sanitaria di contagi, ricoveri e decessi potrebbe presto sposarsi con una nuova emergenza economica, intrisa come fuliggine di chiusure di attività imprenditoriali, licenziamenti, cali di fatturato e cadute di Pil. Un costo salato. Già, quanto ci costerebbe un altro lockdown?
Durante il primo della scorsa primavera, secondo i dati della Banca d’Italia, ogni settimana di blocco bruciava mezzo punto percentuale di Pil annuale. Un dossier della Svimez, invece, che definiva il lockdown “uno shock esogeno senza precedenti” tanto da portare al fermo di oltre 5 impianti su 10, calcolava che il lockdown costava 47 miliardi al mese, 37 al Centro-Nord e 10 al Sud. In pratica, 788 euro pro capite al mese nella media italiana, 951 euro al Centro-Nord contro i 473 al Sud. Un blocco che colpiva – alla cieca, come un maglio impazzito, seppure con diversa intensità e rare eccezioni – tutto: industria, costruzioni, servizi, turismo, commercio. E ora? Dovesse richiudersi il grande lucchetto chi pagherebbe di più per un’eventuale serrata autunnale?
A cercare di quantificare l’impatto del Covid-19 sui capoluoghi italiani è un doppio studio del Cerved per Anci, l’associazione dei Comuni italiani, che a giugno (per le 14 maggiori città metropolitane) e a ottobre (per i restanti 93 centri urbani medi e piccoli) ha monitorato l’andamento di oltre 1.600 settori produttivi. Cerved, a inizio estate, aveva ipotizzato due scenari: uno soft, cioè senza un secondo lockdown, e uno hard, con un altro periodo di chiusura di un mese prima della fine dell’anno.
“Questa crisi – è la premessa di Andrea Mignanelli, amministratore delegato di Cerved – è completamente diversa da tutte le altre. I servizi essenziali, i divieti di assembramento, la riduzione della mobilità colpiscono in misura assai differente i diversi settori. La crisi ha quindi effetti asimmetrici. Un nuovo blocco delle attività colpirebbe i settori che già hanno sofferto di più, come ristoranti, bar, alberghi. Tra le grandi città penso che a patire maggiormente sarebbero Venezia, con la sua filiera turistica, Genova, che è un importante snodo logistico e dei trasporti, mentre su Roma, dove la pubblica amministrazione ha un certo peso, e su Milano, città a forte presenza di servizi e di grandi gruppi che possono usufruire dei vantaggi legati allo smart working, gli impatti potrebbero essere più diluiti, eccetto, ovviamente, nel comparto della ristorazione”.
Ma cosa emerge dallo studio Cerved? Che a seconda dell’evoluzione – soft o hard – lo “scontrino” del lockdown ovviamente cambia. Calcolato su due anni, 2020 e 2021, perché un blocco totale preconizza una ripartenza a lenta carburazione prima di poter tornare (se si torna) a pieno regime. Però, visto che si profila all’orizzonte – con l’antipasto già indigesto di coprifuoco e zone rosse varie – un blocco generale, ora è giusto prendere in considerazione lo scenario peggiore.
E qui cominciano subito le dolenti note: una riedizione del lockdown arriverebbe a far implodere più di 664 miliardi di euro. Osserva il Cerved: le 14 città metropolitane potrebbero subire, nel prossimo biennio, una perdita di fatturato di 320 miliardi, quasi la metà del totale nazionale. L’altra metà della perdita, per la precisione 344 miliardi, ricadrebbe infatti sulle spalle degli altri 93 capoluoghi di provincia.
Più in dettaglio, nel 2020 a risentire maggiormente delle conseguenze della pandemia, nello scenario hard, sarà Torino, che registra un calo dei ricavi del 20,2%, seguita da Venezia (-19,2%), Cagliari (-18,2%) e Genova (-17,9%), affossate dalla sofferenza dei settori portanti delle loro economie: rispettivamente, automotive, turismo, raffinazione petrolifera e trasporto marittimo.
Sul versante opposto, invece, si piazzano Catania, Bari, Bologna e Milano, che tuttavia è la più penalizzata in valori assoluti. Il capoluogo lombardo, infatti, vedrebbe volatilizzarsi un fatturato pari a 97,6 miliardi di euro, mentre Roma ne perderebbe 82,4, Torino 34, Bologna e Napoli più di 20, Firenze 17,7, Genova 12,5 e Venezia 11,7 miliardi.
Venezia, poi, pagherebbe il dazio maggiore sul fronte dell’occupazione, con il 42,6% (73.500 addetti) dei posti di lavoro a rischio, mentre Torino avrebbe la maggior concentrazione di attività messe ko dal virus (44,7%). A Napoli sono a rischio 133mila dipendenti, il 39,1% del totale, mentre Milano, pur con la possibilità di perdere 307mila dipendenti, sarebbe all’ultimo posto con una quota del 29% sul totale. Al Sud il calo sarebbe inferiore alla media italiana.
Lo studio Cerved misura anche i danni, acuiti dal lockdown, sui settori: nel biennio 2020-2021 a Torino l’automotive perderà 6,6 miliardi di euro, che salgono a 10 se si considerano gli altri comparti della filiera (concessionari e componenti). Venezia risentirà, invece, del calo della domanda turistica, dal settore alberghiero (-0,8 miliardi di euro) al trasporto passeggeri lungo i suoi canali (-0,4 miliardi). A Firenze crolla la pelletteria-valigeria (-2,2 miliardi), a Roma effetti pesanti sulla distribuzione di carburanti e combustibile extra-rete (-11,4 miliardi), a Milano caduta di fatturato per concessionari di autoveicoli e motocicli (-7,1 miliardi).
E negli altri 93 centri urbani medio-piccoli? In estrema sintesi, Potenza, Chieti e Campobasso sono le più colpite in percentuale, mentre Brescia, Verona e Bergamo lo sono per valori assoluti. Latina, Imperia e Parma, al contrario, grazie al contributo di farmaceutica e agroalimentare (settori che non si sono mai fermati) continueranno a trarre benefici. Prato e la Toscana, infine, presentano la più alta concentrazione di aziende in crisi di liquidità.
“Sul fronte della liquidità delle imprese – conclude Mignanelli – abbiamo riscontrato notevoli difficoltà fino a maggio-giugno; poi, una volta sbloccati i crediti garantiti, la situazione è un po’ rientrata, anche se resta peggiore rispetto al periodo pre-Covid. Se scattasse un secondo lockdown, molte imprese tornerebbero in difficoltà, sebbene in questo momento continui a essere attivo il canale di sostegno finanziario del Fondo centrale di garanzia, che la scorsa primavera non c’era. I piani di rilancio dell’economia saranno fondamentali per evitare di perdere occupati e capacità produttiva: bisognerà dare prospettive di crescita agli imprenditori, tenendo conto del New normal, cioè di tendenze emergenti che la pandemia ha accelerato”.