Ci sono Quaresime che durano anni, magari sono quelle della porta accanto, che raramente conosciamo e tantomeno fanno notizia.
Infatti, c’è un’Italia raccontata dai rotocalchi e dai social che piace scorgere attraverso il “buco della serratura” del Grande Fratello o di Instagram, fatta dai moderni nani e ballerine di questo circo web mediatico, e un’altra che non troverà mai un palcoscenico perché non è spettacolo, colore o lustrini, ma è solamente quel quotidiano “mestiere” del vivere che non ha ribalte o spettatori.
Don Giuseppe è un prete di periferia, parroco di quei paesi diventati frazione delle città, in cui permane ancora la dimensione di vicinato. Non è giovanissimo (67 anni), ma “cerco di mantenermi in forma per la mia missione” ci dice sorridendo, quasi scherzando, ma non troppo.
La parrocchia è quella di una volta, di quegli anni in cui non bastavano gli spazi per i ragazzi: campo da calcio, cinema, sala e cucina. Ormai, finita la Cresima, altre attrazioni della vicina città muovono, non è più tempo per l’adolescenza in paese.
È sereno don Giuseppe, non ha l’ansia da prestazione, ma solo quella del pastore che ama le sue pecorelle, conoscendole per nome, una a una.
Andiamo con lui nella zona delle case popolari. Verrà il tempo anche per gli altri in questo periodo di Quaresima, quello dei nuovi insediamenti di villette a schiera e piccoli condomini nuovi; in fondo, è comodo abitare fuori dalla città, a “portata di mano” di tutto.
Ci accoglie Graziella, moglie di Giovanni, che da 21 anni è sofferente per un ictus che lo ha praticamente allettato e, soprattutto, ha infranto i sogni di una serena pensione fra loro. È minuta Graziella, ma con quella forza che solo una donna dedicata può avere, e i suoi occhi, velati da una leggera malinconia, accompagnano il racconto del quotidiano vivere con Giovanni.
Anche gli occhi di lui parlano guardando la moglie, ed è come se un tepore si diffondesse nella fredda stanza (non c’è mai troppo caldo nelle case popolari, il riscaldamento costa tanto…).
“Faccio quello che posso, don Giuseppe, sono sola, non posso venire a messa, ma se torna a trovarci sono molto contenta” dice sulla soglia dell’uscio, quasi volendosi scusare di qualcosa che neanche lontanamente era stato pensato.
L’abbraccio di commiato parla più di mille parole.
Lorenza ci apre la porta sorridente, quasi timidamente ci fa entrare. Ha 31 anni ed è una bambina di 9. Il suo mondo deve essere pieno di colori e forme, visto le cornicette che disegna e le collanine di perline che intreccia. Sprizza gioia per la visita e ha preparato alcuni regalini per noi, suoi ospiti. La mamma, che recentemente ha accolto anche la nonna anziana, ci racconta di loro, del loro quotidiano, delle scoperte e delle sconfitte di cui è fatta la giornata.
C’è serenità. Le sottili e delicate rughe del volto raccontano anche di altri momenti, di quello che avrebbe potuto essere ma non è stato, di quell’essere mamma così “diverso” da quello che ogni mamma sogna nell’attesa.
È tempo di andare.
Lorenza ci accompagna alla porta, contenta, ci stringe la mano. Che strano… lasciando quella mano si ha come la percezione di lasciare qualcosa di un altro mondo appena intuito, che forse c’entra anche con sé.
Si è fatto tardi, bisogna rientrare, ma questo non impedisce il soffermarsi lungo il viale a volgere lo sguardo, seguendo il segno della mano del don mentre indica porte e finestre che sono nomi, bisogni, situazioni, amori, dolori, prossimi appuntamenti per lui.
Arrivato, salgo le scale, incrocio il vicino di pianerottolo. Non so perché, mi soffermo un attimo, non solo lo vedo, ma lo guardo. È sempre il “ciao” di ogni volta, però diverso. Chissà, magari la prossima volta gli suono e passo a trovarlo.