In questa brutta campagna elettorale per decidere chi sarà il presidente degli italiani nei prossimi sette anni spiccano con grande chiarezza tre cose, intuite un po’ da tutti, ma mai formulate con la chiarezza necessaria.
In primo luogo, tra ogni leader e il rispettivo gruppo parlamentare c’è una distanza affettiva ed effettiva quale mai si era data in precedenza; il che giustifica una migrazione interna dei singoli deputati e senatori da un gruppo all’altro, perché il proprio gruppo non appare mai sufficientemente sicuro e accogliente. Sono quei cambi di casacca che possono facilmente convertirsi in franchi tiratori.
In secondo luogo, nelle due coalizioni, di centrodestra e di centrosinistra, ma anche nel mega-gruppo misto, le relazioni tra gli alleati appaiono improntate alla reciproca diffidenza. Alla collaborazione che ci si potrebbe e dovrebbe attendere tra alleati si è andato progressivamente sostituendo una sorta di controllo reciproco, in cui si riflette una forte cultura del sospetto.
In terzo luogo, a livello istituzionale si respira un’aria di forte competitività tra il Colle, Palazzo Chigi e il Parlamento con le sue due Camere. Come dire che Fico e la Casellati da una parte, e Draghi e l’atteso deus ex machina dall’altra, guardano più alla tutela delle proprie prerogative che non alla costruzione di una vera squadra affiatata e produttiva.
E questo è talmente evidente che tra i parlamentari, al momento di scegliere a chi dare il voto, subentra uno stordimento e un disorientamento che porta a consegnare scheda bianca, ad astenersi o a dare voti alternativi, intenzionalmente non validi. La meta è così confusa e la nebbia è così spessa, che è davvero difficile dire chi stia a favore di chi; anche perché gli atteggiamenti cambiano così repentinamente da non consentire una valutazione seria e affidabile delle cause e delle conseguenze di ciascuna decisione.
Il Pd vuole marcare il territorio, nonostante i suoi numeri siano piuttosto risicati; e vuole imporre la sua attuale candidatura, Draghi o Mattarella, perché appaia chiaramente chi controlla chi. Il Pd intenderebbe apparire come colui che riesce a controllare contemporaneamente il Colle e Palazzo Chigi. Ha velocemente scaricato la Casellati, considerando lei divisiva e non sufficientemente super partes.
Diverso l’atteggiamento di Lega e Fratelli d’Italia. Meloni e Salvini hanno l’incognita di come i rispettivi elettori valuteranno le rispettive scelte e come è possibile crescere a spese dell’altro. Non sfugga la mossa di Giorgia Meloni, che candidando Crosetto ha voluto ottenere solo un’esibizione di forza.
In quanto a Forza Italia, dopo il ritiro di Berlusconi, stenta a trovare la quadra e a identificare un suo candidato di bandiera. Dopo gli ordini di scuderia, per cui oggi l’intero centrodestra si è astenuto, è apparso chiaramente come i voti che ieri avevano messo in evidenza Casini sono in realtà del centrodestra. È fallita l’operazione di far apparire Casini come il candidato del centrosinistra votato anche dal centrodestra. Se vogliamo dobbiamo “ringraziare” ancora Letta per aver bruciato pure Casini col suo metodo del candidato super partes.
Ciononostante Casini è ancora in pista per almeno tre ragioni.
1) È il candidato che conosce Camera e Senato meglio di chiunque altro; è stato presidente della Camera, presidente della Commissione esteri in Senato, presidente dell’internazionale democristiana.
2) È un profilo interamente politico e rispetto alla tecnicalità di Draghi ne rappresenta l’antitesi, ma anche il più importante fattore di compensazione e di riequilibrio.
3) Alla seriosità di Mattarella offre in alternativa un atteggiamento più aperto, anche per un naturale ottimismo; è più inclusivo e accogliente, meno quaresimale.
Se ci fosse un maggior buon senso tra i parlamentari, potrebbero sceglierlo già domani, certi di non trovare in lui la superiorità morale di Enrico Letta, l’atteggiamento muscolare di Matteo Salvini o il tatticismo esasperato di Matteo Renzi, né l’atteggiamento da mister Tentenna di Conte. Né scorgerebbero in lui tracce del comportamento da asso pigliatutto tipico della Meloni.
Non a caso, del resto, in tempi non sospetti, Berlusconi aveva guardato a lui come ad un possibile erede. Ma poi, si sa, Berlusconi è l’unico erede di se stesso.
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