“Ora è a rischio l’accordo sul Colle” ha detto ieri alla Stampa Enrico Letta. Si riferiva all’accordo del Pd con i 5 Stelle, dilaniati dallo scontro tra Grillo e Conte, su una partita che il segretario dem definisce “delicatissima”, e che adesso, vista da sinistra, appare molto difficile da gestire. Antonio Pilati, saggista, ex componente dell’Agcom e dell’Antitrust e autore de La catastrofe delle élite (Guerini, 2018), ha una sua tesi sul rinnovo della presidenza della Repubblica che si discosta dalla versione più accreditata e circolante, quella che vede Draghi alla guida del governo fino al ’23 per poi andare “in Europa”.
Pilati parte da una premessa. “L’Italia, fino a oggi, non si è trovata in difficoltà soltanto grazie agli acquisti massicci di titoli di debito pubblico e privato da parte della Bce. Ma il Pepp (Pandemic Emergency Purchase Programme) dovrebbe ridursi e finire nel corso del 2022. Contemporaneamente c’è una fortissima pressione da parte di molti paesi per ritornare alle condizioni del Patto di stabilità, che per noi sono molto impegnative.
Da questo che cosa deriva?
La nostra debolezza strutturale. Con la fine degli acquisti straordinari e il ritorno del Patto, ci troveremo nuovamente a rischio. Ci mette al riparo solo la credibilità di Draghi, decisiva in una duplice direzione: verso i partner europei e ancor più verso l’alleato americano.
Perché l’America è più importante?
Perché è la vera sponda che ci bilancia nei rapporti con gli altri paesi europei. Le vicende della politica italiana si pongono all’interno di questo contesto già definito e come tali hanno una valenza subordinata.
Però ce l’hanno.
Certo. Se le forze politiche mettono a repentaglio l’azione del governo, questo si ripercuote sulla fiducia che per noi è assolutamente necessario ispirare all’estero.
La recente visita del segretario di Stato Anthony Blinken in Europa e in Italia?
È servita a ricalibrare la posizione dell’Italia dentro lo schema atlantico. Insomma un tassello per consolidare la fiducia degli Stati Uniti verso l’Italia.
Qualcuno ha osservato che gli Usa sarebbero molto preoccupati del fatto che la riconversione ecologica imposta dal Recovery si traduca in un regalo alla Cina, invece che in un aiuto alle economie europee.
I programmi di riconversione ecologica hanno una forte componente ideologica e dobbiamo augurarci che questa non prevalga. Finora gli obiettivi che l’Europa aveva fissato non sono stati centrati.
Perché?
Perché sono programmi irrealistici. Penso però che la riconversione sia finalizzata a favorire, più che la Cina, l’industria tedesca e il suo passaggio all’auto elettrica. Ho anche la sensazione che nei prossimi anni la conversione ecologica sarà meno incidente di quanto sembri.
Lo sviluppo sostenibile mette trasversalmente d’accordo molti: Cingolani, Giovannini, perfino Conte e Grillo. Le suggerisce qualcosa – magari un candidato al Colle?
Sostenibile è una parola di gran modo, la pubblicità ne fa un uso strabordante, però ha un significato molto vago. Non credo che sia una base di lancio per il Quirinale.
Il Recovery è troppo complicato per lasciarlo a qualcun altro. E poiché Draghi è il garante dei nostri creditori, dev’essere lui a pilotarlo. Poi andrà in Europa. È tutto già scritto?
L’Italia ha bisogno di garantire fiducia ai suoi partner. La fiducia è legata ad alcune figure e al ruolo che hanno. Il ruolo politico più importante in Italia è la presidenza della Repubblica. Questo mi fa ritenere che, se Draghi è il referente internazionale dell’Italia, la sua destinazione naturale sia il Quirinale.
Però c’è chi lo vede alla presidenza del Consiglio europeo.
Il presidente del Consiglio Ue decide poco più che il posizionamento delle sedie negli incontri internazionali. Chi vede Draghi in quel ruolo sbaglia le misure.
Però l’Unione Europea c’è ancora ed è Bruxelles a comandare.
Sì, ma da una quindicina d’anni a questa parte il Quirinale è venuto dilatando i suoi poteri: Napolitano ha dato un’interpretazione molto attiva del suo ruolo e Mattarella, anche se in maniera più felpata, è stato il vero snodo dei giochi politici interni.
Dunque cambia anche la presidenza della Repubblica.
Potremmo evolvere verso una versione italiana del sistema francese: un presidente della Repubblica motore e indirizzo dell’azione politica. Un potere sempre più esecutivo di fatto, se non di diritto.
Che cosa ci attende nel 2022?
Al netto delle variabili interne, che ci sono sempre ma non possiamo prevedere, ci aspetta, credo, l’elezione di Draghi al Colle e un governo che prosegue, sotto la sua supervisione, il lavoro dell’attuale esecutivo.
L’elezione di Draghi è stata esclusa perché significherebbe – si è detto – lo scioglimento delle Camere e le elezioni politiche.
Questo sviluppo dipende da tante cose. L’elezione del presidente della Repubblica richiede in qualche modo di rassicurare i parlamentari sul loro futuro. È fattibile? Non lo sappiamo. Inoltre questo parlamento è largamente indebolito dalla modifica costituzionale che cambia il numero dei parlamentari, dalle scissioni che ci sono state, dalla disgregazione di M5s. È un parlamento disfunzionale.
Dunque lei stesso non si nasconde le difficoltà.
Ripeto, rispetto al contesto parlamentare conta molto, a garanzia dell’ordine europeo, l’interesse degli Stati Uniti a controllare gli Stati chiave del continente.
È possibile che Mattarella, come presidente uscente, possa girare la sua dote di credibilità internazionale a candidati o candidate di sua fiducia?
Non siamo nelle condizioni di scegliere chiunque per quel ruolo; possiamo scegliere solo qualcuno che dia fiducia, nell’ordine, a Washington, ai mercati e a Bruxelles.
Quindi?
Personaggi più o meno rilevanti della politica italiana non sono in grado di interpretare questo ruolo. Un po’ perché non sono conosciuti fuori dei confini, un po’ perché non ne hanno la statura.
Chi potrebbe essere il playmaker della prossima elezione?
È presto per dirlo. Però siamo un paese debitore con limitata autonomia. I veri playmaker sono i creditori e gli alleati maggiori. Ciò non toglie che ne frattempo qualcosa di importante possa comunque avvenire.
A cosa si riferisce?
Con lo sbandamento in atto nel versante sinistro dello schieramento, la federazione-fusione tra Lega e FI è il fatto saliente che può cambiare il quadro, perché, come ho già detto, può dare un nuovo perno al sistema politico.
Federazione e fusione sono due cose diverse.
Decisamente. Ma rispetto al punto d’arrivo sono nominalismi. Il punto vero è: quando ci saranno le elezioni, i due partiti presenteranno una lista unica?
(Federico Ferraù)
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