“Il quoziente familiare è per sua natura una misura di equità fiscale e ha un impatto, documentabile dai lavori dell’Ocse, ma non solo, che di per sé porta ad aumentare di almeno un punto percentuale di Pil la spinta ai consumi interni”. Così Luigi Campiglio, professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano, commenta la notizia secondo cui il governo Meloni vuole rivedere il sistema di tassazione e di calcolo delle agevolazioni dell’assegno unico universale, introducendo il meccanismo del quoziente familiare al posto dell’Isee, l’indicatore della situazione socio-economica, favorendo in tal modo il contrasto alla denatalità.



In pratica, il quoziente familiare è un sistema che stabilisce le aliquote d’imposta in base al numero e alla condizione (disabilità, età, grado di parentela) dei componenti del nucleo familiare. Nel caso del sistema di quoziente familiare alla francese a ogni componente del nucleo viene attribuito un valore. Il reddito complessivo viene diviso per questo coefficiente e viene poi applicata l’aliquota corrispondente in base alle quote. Secondo una ricerca Eurispes, questo sistema comporterebbe un risparmio annuo in media di 800 euro per famiglia, favorendo soprattutto le famiglie più numerose.



Professore, il governo Meloni intende applicare il quoziente familiare al posto dell’Isee. Previsto già per il Superbonus 110%, il nuovo meccanismo dovrebbe diventare la base per i nuovi calcoli dell’Irpef. E’ una scelta opportuna?

L’Isee è stato finora un meccanismo attraverso cui si è individuata un’asticella per non, e sottolineo non, erogare delle prestazioni sociali. L’Isee tiene conto non solo del reddito, ma anche della proprietà dell’abitazione, e questo pone dei problemi, perché nel nostro paese il possesso della casa è pagato a caro prezzo da molte famiglie. La proprietà dell’abitazione diventa un’imposta sui sacrifici di tutte le coppie, che hanno nel tempo pagato il mutuo. E’ una logica che non aiuta la natalità.



E il quoziente familiare?

Il quoziente familiare ha un impatto, documentabile dai lavori dell’Ocse, ma non solo, che di per sé porta ad aumentare di almeno un punto percentuale di Pil la spinta ai consumi interni.

E’ solo una stima o ci sono già casi in cui è visibile questo effetto?

Rispetto alla Francia, che usa il quoziente familiare da tanto tempo in modo sistematico, abbiamo questo gap di un punto di Pil, che sarebbe in questo momento ancora più benvenuto. Non è la panacea, ma un punto di Pil in più ha il suo peso.

In Italia è stato introdotto l’assegno unico. Non ha sortito la stessa spinta?

L’assegno unico è stato all’origine motivo di speranza e di apprezzamenti positivi, e lo è ancora, ma di fatto non funziona: le prestazioni sono state disapplicate perché il meccanismo è tale per cui si è creato un avanzo rispetto alle spese che era possibile erogare.

Il motivo?

Dipende dal fatto che sono le famiglie, per l’appunto con l’Isee in mano, a dover chiedere le prestazioni.

Torniamo al quoziente familiare. Dove sta la sua convenienza?

Il reddito disponibile di una famiglia viene diviso per il numero dei componenti e per ogni componente “si “decide”, su basi oggettive e quantitative, qual è la loro ponderazione. Non solo: si può anche decidere, ma questa è una scelta politica, di aumentare il denominatore per le situazioni di particolare esigenza, come le disabilità. Il quoziente familiare è un meccanismo semplice.

C’è però chi obietta che rispetto all’Isee “penalizza le famiglie povere rispetto a quelle ricche”, perché prevede “uno sconto più forte per chi è benestante”. E’ un rischio che si corre?

E’ un’obiezione facilmente superabile: per evitare che lo Stato fornisca servizi a chi non ne ha bisogno è sufficiente porre un tetto al reddito, oltre il quale i benefici del quoziente familiare si riducono e dopo una certa soglia potrebbero anche annullarsi.

E c’è chi dice che applicandolo ai redditi “scoraggerebbe anche l’occupazione femminile”. E’ davvero così?

No. Il problema dell’occupazione femminile è che manca il lavoro.

Come andrebbe predisposto un quoziente familiare davvero equo? Bisogna intervenire sui coefficienti, sulle deduzioni, sulle detrazioni?

Chiariamo subito un punto fondamentale: il quoziente familiare è per sua natura una misura di equità fiscale, perché mette sullo stesso piano in termini di capacità contributiva famiglie di diversa composizione, e può essere modulato in particolare, ed è una sottolineatura molto importante, a favore di quelle numerose. E dico questo pensando al nostro inverno demografico.

Perché?

Si parla tanto di denatalità, ma si dimentica che i parametri demografici sono parametri medi. In Italia il tasso di fecondità è bassissimo, per di più grazie all’apporto degli immigrati, ma è una media, per cui esistono famiglie e coppie che “scelgono”, liberamente in alcuni casi e per obbligo in altri, di fermarsi dopo il primo figlio, magari per questioni legate al reddito insufficiente. Così tutta la politica economica a favore della famiglia in Italia, nonostante gli allarmi, è alquanto debole.

Esistono due modelli di calcolo: lo splitting e il quoziente familiare. Quale dei due sarebbe più adatto al nostro paese? E perché?

Decisamente meglio il quoziente familiare, perché, ripeto, se ben articolato, è più vantaggioso dello splitting. Lo splitting è legato a coloro che lavorano, mentre il quoziente familiare riguarda soprattutto le coppie in cui qualcuno non lavora. Attenzione, però: non deve essere pensato per non incentivare il lavoro, ma per poter usufruire di servizi di cui altrimenti non potrebbe godere, per esempio avere una baby sitter nel caso entrambi i genitori debbano lavorare e non ci siano i nonni disponibili ad accudire i loro nipoti.

In Italia la detrazione delle spese per l’educazione dei figli viene calcolata su importi a volte risibili. Non sarebbe il caso di renderla piena su quanto una famiglia spende dalla prima infanzia all’università?

In Francia a tutte le famiglie, con un ragionevolissimo tetto, danno un rimborso generalizzato delle spese che si ritiene debbano sostenere per mandare a scuola i propri figli. E’ una misura che fa parte di una politica famigliare che sia “friendly”, amichevole, come si usa dire oggi.

Che ne pensa dell’ipotesi di non tassare le spese indispensabili per il mantenimento e l’accrescimento della famiglia?

Abbiamo bisogno di un meccanismo semplice che consenta di aumentare il reddito familiare disponibile. Sa come veniva definito e misurato il salario dagli economisti classici a inizio Ottocento? Quella somma che consentiva a chi lavorava, alla moglie e ai figli di vivere dignitosamente. Ciò consentiva di avere una popolazione almeno stazionaria, non in calo, e quindi di poter mantenere la forza di lavoro del futuro.

Molti si oppongono al quoziente familiare perché ritengono che sia troppo costoso per le casse pubbliche. Dal punto di vista dei fondamentali, sarebbe una scelta che non possiamo permetterci?

Basterebbe ricordare quanto dicevo all’inizio, riferendomi a quel punto percentuale in più di consumi delle famiglie a beneficio del Pil. Famiglie che, tra l’altro, affrontano molti sacrifici se hanno più di due figli. Quello che noi non paghiamo oggi alle famiglie in termini di salario e potere d’acquisto, finiremo col pagarlo in futuro in termini di rallentamento della crescita dell’intero paese.

(Marco Biscella)

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