Quasi in contemporanea, sono stati distribuiti nelle ultime settimane tre documentari su altrettanti protagonisti della tv e dello spettacolo in Italia, assai famosi tra gli anni ’60 e ’90 del secolo scorso. Coincidenza? Direi proprio di no. Colpisce, ad esempio, la realizzazione speculare dei due documentari su Giorgio Gaber, prodotto dalla Rai, e quello su Enzo Jannacci, realizzato da Netflix. Ma è la docuserie su Raffaella Carrà realizzata da Disney+ che segna in modo inequivocabile il tentativo di riabilitazione in toto di quel periodo storico, in realtà così controverso. Come del resto sa bene chi quegli anni li ha vissuti davvero.
La Carrà è sicuramente stata molte cose, anche perché ha avuto una carriera lunghissima per una showgirl. Non è durata qualche anno, ma ha retto la scena per almeno tre decenni. Bisogna darle atto che la sua qualità principale è stata quella di reinventarsi al primo segnale di logoramento. Grazie anche a una squadra di collaboratori di primo ordine, a cominciare ovviamente da Gianni Boncompagni, suo mentore e compagno (almeno per i primi anni della sua vita artistica).
Proprio volendo assumere come criterio guida della docuserie, il racconto di questa evoluzione e di questa grande capacità di cambiamento di Raffaella, l’autrice Cristiana Farina e il regista Daniele Lucchetti hanno scelto di suddividere i tre episodi esattamente tra i tre momenti salienti della straordinaria carriera della ragazza cresciuta in un bar di Bellaria.
Il primo episodio si concentra sullo sforzo eccezionale – e con che grinta e determinazione! – che la giovane Raffaella Pelloni compie per entrare nel mondo dello spettacolo. Tenta in ogni campo e in ogni modo. Cercando di diventare ballerina, ma non supera le severe selezioni dell’Accademia nazionale di Roma. Ci riprova come cantante, ma con scarsi risultati. Poi studia recitazione al Centro Sperimentale e fa provini a ripetizione. Dopo piccole parti e qualche apparizione in film di secondo ordine, ecco l’occasione della vita. In Italia c’è Frank Sinatra che sta producendo un film con una trama in voga in quegli anni, Il colonnello von Ryan, la storia di un ufficiale americano in Italia durante la Seconda guerra mondiale. Raffaella riesce a ottenere la parte, che le porta notorietà e un contratto con una major americana, con relativo trasferimento a Hollywood.
L’America non fa per lei e dopo poco straccia l’accordo e fa ritorno in Italia. In ogni caso essere stata una partner di Sinatra le lascia un alone di successo che la mette in evidenza. Così incontra Boncompagni (per una surreale intervista fatta alle 6 del mattino sulla scalinata di piazza di Spagna). Nasce così un sodalizio che durerà a lungo e che ben presto diventerà uno dei più potenti gruppi di produzione di programmi televisivi che ha dominato per alcuni decenni la televisione italiana, e non solo.
È Boncompagni che lancia la Carrà in prima serata con un varietà costruito ad hoc per lei, per poi approdare come presenza fissa nei programmi del sabato sera, Canzonissima prima, Mille Luci poi. Ben presto Raffaella diventa la fidanzata di tutti gli italiani, di ogni età, ceto sociale, livello culturale o provenienza territoriale. Sostituisce nell’immaginario collettivo le donne formose del realismo del dopoguerra, quelle dei concorsi di Miss Italia, come la Loren e la Lollobrigida. Per molti anni monopolizza la tv e il grande pubblico. I suoi costumi, la sua danza moderna, le sue piccole provocazioni – tutti ricordano l’ombelico scoperto – cambiano l’Italia con gli unici tempi e i soli modi con cui l’Italia si è fatta e si fa cambiare. Senza strappi, senza accorgersene.
Quando arrivano nuove agguerrite concorrenti (Heather Parisi tra tutte), Raffaella Carrà capisce che è arrivato il momento di cambiare e decide di fare una lunga tournée in Spagna e in Sudamerica, che ben presto si rivela una scelta azzeccatissima, l’occasione per una seconda vita. Raffaella si scopre in totale sintonia con quella cultura. Anche in questo caso la Carrà è la novità – diciamo così – che ci si può permettere. E come in Italia la tv democristiana e bigotta la accettò come male minore, il massimo della trasgressione e dell’innovazione possibili (fuori da quegli studi televisivi non dimenticate che scoppiava il ’68 e la Rai metteva alla porta gente del calibro di Dario Fo, e giovani come Gaber e Jannacci), così nella Spagna post-franchista e nell’America latina peronista e preda di dittature militari, la spensieratezza dei contenuti ammiccanti dei suoi show potevano tutto sommare essere accettati e far comodo. Fino al punto che il mito della Carrà da quelle parti si sviluppa molto prima che da noi.
Quando ritorna in Italia le cose sono cambiate e, soprattutto, è cambiata lei. La relazione sentimentale con Boncompagni si è conclusa, ma non l’intesa imprenditoriale che porta i due a continuare la collaborazione professionale e a sfornare nuove idee. Nascono così due programmi che segnano la storia della Tv nel nostro Paese. Prima con Pronto, Raffaella? si inchiodano milioni di casalinghe alla tv del mattino, poi con Carramba! Che sorpresa nasce “la tv del ricongiungimento”, fatta di colpi di scena e tante lacrime, così in sintonia con il Paese degli anni ’90, che ha messo alle spalle sia la Prima repubblica che ogni velleità di sviluppo e modernizzazione.
Come sempre in questi ultimi anni, la ricostruzione di quanto accaduto nella seconda metà del Novecento nel nostro Paese è dominata – sono tentato di dire afflitta – dalla nostalgia e da un’ingiustificata quanto incomprensibile voglia di riabilitare praticamente tutto. Sorvolando su ogni passaggio controverso, negando a volte l’evidenza. Raffaella Carrà è stata una icona dell’Italia popolare, nessuno lo può mettere in discussione. La sua capacità – sarebbe più giusto dire la capacità dei suoi autori e collaboratori, tutti di primo ordine – di parlare a pubblici assai diversi tra loro ne hanno fatto un mito anche per mondi diversi, valga per tutti il sostegno ricevuto dalla comunità Lgbt+ che resiste tutt’oggi. Ma come dimenticare che la tv dei balletti, a cominciare dal tuca tuca, o delle canzoni con testi approssimativi (di chi fa l’amore da Trieste in giù),o di un pubblico attaccato al televisore per vedere chi indovina il numero di fagioli in un recipiente, hanno pesato molto di più sull’Italia di oggi, di qualcosa che c’era e che via via è stato messo ai margini.
In ogni caso molte di queste considerazioni interessano sempre di più solo una certa generazione – i boomers? – così derisa, ma anche così ancora importante quando si vuole fare audience (si pensi a quello che è diventato nel frattempo Sanremo). Sono in molti quelli che aspirano a mettere le mani su un pubblico sempre pronto ad accogliere con qualche lacrimuccia ogni “operazione nostalgia”, sempre pronto a condividere chi dichiarare che “era molto meglio prima”. Ma senza per questo disdegnare poi l’Italia pop di oggi, anzi, pronti ad applaudire ogni giovane trap che appare dal nulla e qualche facile melodia conturbante.
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