Non c’è accordo sulla tregua e la liberazione degli ostaggi. Netanyahu è convinto di invadere Rafah e la gente a Gaza muore di fame. La tensione fra Israele e Hamas, già solo per questo, è alle stelle, ma ora comincia il Ramadan, il mese sacro del digiuno per i musulmani, che potrebbe far riesplodere la questione della Spianata delle Moschee, a Gerusalemme, città dove si concentrano luoghi fondamentali per tutte e tre le religioni monoteiste.
Non solo, spiega Renzo Guolo, ordinario di sociologia della religione all’Università di Padova, esperto di islam e fondamentalismi, eventuali incidenti rilevanti potrebbero infiammare la Cisgiordania, ma anche le opinioni pubbliche di altri Paesi mediorientali, mettendo a rischio la possibilità di accordi con Israele in cui si pattuisca la nascita di uno Stato palestinese in cambio della normalizzazione dei rapporti con Tel Aviv. Non per niente la moschea di Al Aqsa, a Gerusalemme, è il terzo luogo sacro per tutto l’islam. La posta in gioco, insomma, in questo mese, è molto alta.
Intanto l’ONU bolla come crimini di guerra gli insediamenti dei coloni in Cisgiordania: in territori che non appartengono a Israele sono stati costruiti insediamenti urbanizzati, sede di importanti poli tecnologici. Quello sarebbe lo spazio su cui dovrebbe nascere lo Stato palestinese.
Quanto può incidere il Ramadan sulla complicata situazione dei rapporti israelo-palestinesi?
L’elemento religioso è un aspetto importante per Hamas e gli altri gruppi islamisti. Il Ramadan è il mese sacro dei musulmani e nell’interpretazione data da formazioni che hanno usato la relazione politica-religione come elemento centrale della loro attività, qualsiasi avvenimento che può ostacolare l’esercizio della fede è percepito come attacco all’islam. Negli ultimi 50 anni, l’interpretazione offensivista di fondamentalisti come il GIA in Algeria, certe forze in Afghanistan o Al Qaeda ha condotto alla considerazione che nel mese sacro ci si oppone fortemente anche a coloro che potrebbero minacciare la fede.
Cosa aggiunge tutto questo alla tensione già esistente?
Dentro questa dinamica, la situazione attuale non è vissuta solo come scontro fra due popoli ma come qualcosa che ha a che fare con la fede, magari coniugata in maniera etnica, esclusivista. Il risultato è che questo sostrato alimenta la possibilità di incidenti. La sensibilità religiosa nel mese di Ramadan aumenta esponenzialmente e, in una situazione di questo genere, la possibilità di scontri si moltiplica. Anche se è un Ramadan molto triste, soprattutto a Gaza: l’obbligo religioso è quello del digiuno quotidiano e lì il digiuno è assolutamente quotidiano anche al di fuori del mese sacro.
Da una parte, il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, invita i palestinesi ad andare alla Spianata delle Moschee, dall’altra le restrizioni imposte dal governo Netanyahu all’accesso dei fedeli. Quali conseguenze possono avere queste spinte contrapposte?
L’accesso alla Spianata è già regolamentato, si parlava di una restrizione ulteriore voluta da Ben Gvir, come ministro della Sicurezza, ma sostanzialmente sembra che non ci siano grandi variazioni. L’accesso, comunque, rimane limitato. È uno dei grandi contenziosi in atto. Non è un caso che Hamas abbia nel suo vessillo la Moschea di Al Aqsa: è il simbolo del ritorno a Gerusalemme e sta a significare una Palestina totalmente riunificata, che non prevede lo Stato di Israele. Il vero problema è che il terzo luogo santo dell’islam sorge sulle antiche rovine del tempio, che a sua volta era il simbolo dell’ebraismo prima della distruzione operata dai romani. Nell’ideologia dei gruppi della destra messianica religiosa, quelle fondamenta devono portare alla ricostruzione del tempio stesso. Ci sono due visioni che non sembrano tollerare alcuna co-presenza dell’altro.
Anche prima della guerra, il Ramadan era occasione di scontro aperto su questi temi?
Sì. Da quando, a partire dal 1967, sono nati i movimenti della destra nazionale religiosa messianica, che predicano il ritorno al Regno di Davide e la possibilità di ricostruire il tempio. Se dall’altra parte poi si afferma una visione che nega qualsiasi possibilità di convivenza religiosa, è chiaro che questo diventa un elemento esplosivo in un contesto come questo.
L’idea del governo Netanyahu, esplicitata prima del 7 ottobre, era di riappropriarsi dell’intera Spianata, del Monte del tempio.
Non tanto di Netanyahu quanto della componente della destra messianica, i partiti di Smotrich e Ben Gvir: nella loro visione, la Terra di Israele è quella che deve ricomprendere Gerusalemme nella sua totalità, oltre le regioni che continuano a chiamare Giudea e Samaria e che coincidono con i territori occupati.
In questo mese, quindi, potrebbero esserci anche delle provocazioni da parte di questi movimenti di destra?
Potrebbe succedere. Teniamo conto che oggi la grande novità è che questa componente è decisiva nel sostenere il governo israeliano e che il ministro della Sicurezza, cioè quello che controlla le forze di polizia, è uno dei loro esponenti più accesi. Il Ramadan è nella testa di tutti un momento, che però dura un mese, in cui la probabilità di un grosso incidente è molto alta. Anzi, incidenti rilevanti alla Spianata delle Moschee farebbero saltare questa sorta di stasi che c’è sul fronte della Cisgiordania. Se si nega l’accesso, come vorrebbe Ben Gvir, ai palestinesi che provengono da lì, è possibile che, per quanto la repressione e il controllo degli israeliani siano molto forti, accadano incidenti.
Il pericolo è limitato alla West Bank?
Stiamo parlando della moschea di Al Aqsa, terzo luogo sacro dell’islam: la questione non si ridurrebbe a una vicenda israelo-palestinese, obbligherebbe i Paesi dell’area che vogliono andare a un accordo con Israele, compresa l’Arabia Saudita, a irrigidirsi. Sarebbe in gioco la possibilità di praticare la fede e l’accesso a un luogo considerato santo. Persino per lo spregiudicato Bin Salman sarebbe molto difficile ignorare incidenti ad Al Aqsa. Così anche la strategia americana di portare Israele sul terreno dei due Stati, in cambio di una garanzia di sicurezza internazionale e del sigillo finale agli accordi di Abramo, si allontanerebbe. Gli incidenti ci sono sempre stati, l’importante è che non diventino debordanti, tanto da provocare una reazione popolare: diventerebbe importante anche quello che succede nei Paesi circostanti.
La questione della Spianata delle Moschee riporta in primo piano il futuro della Cisgiordania: un rapporto dell’ONU ha definito crimini di guerra le colonie israeliane in quel territorio. Quanto può incidere sullo sviluppo della guerra?
Dal punto di vista giuridico, questa affermazione conta quasi niente, perché ci sono meccanismi di interdizione che impediscono che vengano prese decisioni conseguenti. Però si brucia ancora di più quel capitale simbolico di cui Israele godeva presso l’opinione pubblica internazionale dopo il 7 ottobre. Si sta erodendo progressivamente con la condotta del conflitto a Gaza.
Perché si arriva a evocare addirittura il crimine di guerra?
Dal punto di vista giuridico internazionale, l’allargamento delle colonie avviene in territori occupati, che non sono parte di Israele. I partiti religiosi ci vedono un altro tassello della loro strategia di conquista della terra dal punto di vista teologico; per il Likud, il partito di Netanyahu, si tratta di allargare i confini per motivi di sicurezza e spazialità demografica. Di fatto, si sottraggono territori a quello che dovrebbe essere lo Stato palestinese. Avanti così, nel momento in cui si arriverà a parlare dei due Stati, non ci sarà più un territorio per i palestinesi. È la politica del fatto compiuto: è ben difficile che qualcuno imponga a Israele di smantellare insediamenti che sono vere e proprie città. Non parliamo più, come negli anni ’70, di piccoli avamposti in roulotte o in accampamenti. In alcune zone, Israele ha collocato aree produttive fondamentali per la propria industria tecnologica.
(Paolo Rossetti)
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