Usciva quarant’anni fa in tutte le sale americane il film First Blood di Ted Kotcheff, meglio noto al pubblico italiano col titolo, diventato col tempo paradigmatico, di Rambo. Tratto dal romanzo omonimo pubblicato da David Morrell dieci anni prima, Rambo racconta la disavventura di un reduce dalla guerra del Vietnam che, recatosi in un paesino della provincia americana a trovare un commilitone (morto di tumore per le conseguenze della guerra), viene dallo sceriffo del luogo scambiato per un vagabondo e arrestato. Malmenato e vessato pesantemente, nel corpo come nella sua dignità umana, Rambo riesce a fuggire trovando rifugio nella vicina foresta. Allora la polizia locale lo bracca con ogni mezzo. Segue un’escalation di ferocia da entrambe le parti che culmina con la quasi esecuzione finale (il colonnello Trautman, suo ex comandante, ferma Rambo sul punto di uccidere lo sceriffo) e la successiva catarsi del reduce, che piange le sue ragioni e poi si consegna alla giustizia.
In un’America appena entrata negli anni dell’edonismo reaganiano, il cinema di Hollywood affronta ancora una volta il tema dei reduci del Vietnam, la “sporca guerra”, entrata nell’immaginario collettivo americano con questo nomignolo perché – a differenza delle precedenti – persa. Fa ciò non con la riflessione intimista e dolorosa di Tornando a Casa (Ashby, 1978), non con la forza espressiva de Il Cacciatore (Cimino, 1978), nella cui ultima sequenza c’è tutto il senso di una generazione sconfitta; nemmeno con la visionaria lucidità allucinata di Taxi Driver (Scorsese, 1976). In Rambo invece è la semplice esplicita violenza a condurre tutta la storia. Ignoranza colpevole, astio, risentimento, vendetta e violenza. Questo il concatenarsi degli eventi.
Violenza che però non è di puro spettacolo punto e basta, ma concettuale. Nel senso di una violenza gratuita e preconcetta, che parrebbe esplodere dal nulla, figlia di una società malata. Che poi genera altra violenza come unica risposta possibile da parte di colui – come il reduce reietto – al quale la società solo quello ha saputo insegnare, al quale solo quell’alternativa la medesima (società) gli consente, solo quel tipo di autodifesa gli ha lasciato.
A differenza di altri film sul tema, quelli citati sopra come tanti altri, Rambo non mostra scene di guerra vere e proprie, pur risultando di fatto un war movie in un contesto di pace. Dato ciò, la rappresentazione della violenza efferata che lo caratterizza risulta per esso una scelta di contenuto e di stile e non un orpello spettacolare fine a se stesso. Nonostante di spettacolo – non a caso siamo nel post-moderno – ce ne sia molto: ben congegnate le sequenze degli inseguimenti, così come le scene d’azione nella foresta. Celeberrima quella del duro eroe che si ricuce da solo il braccio ferito. Da questo punto di vista, Rambo è senz’altro un action movie di prim’ordine.
Notevole l’apporto alla riuscita del film di Sylvester Stallone, al suo secondo personaggio epocale dopo Rocky Balboa. Collabora infatti alla sceneggiatura, offrendo interessanti spunti per mitigare le brutalità presenti nel romanzo di Morrell, semplificandone anche l’intreccio (nel libro lo sceriffo è un reduce della guerra di Corea, con tutto ciò che ne consegue). Conferisce inoltre un taglio allucinato e schizofrenico al personaggio, interpretato con adeguato atletismo.
Il successo del film è anche dovuto alla sua singolare declinazione del paradigma del viaggio dell’eroe. John Rambo è ovviamente l’eroe (il bene), lo sceriffo Teasle e i suoi uomini sono gli antagonisti cattivi (il male), il colonnello Trautman il suo mentore, anche se di un taglio del tutto particolare. L’elisir con cui l’eroe alla fine torna a casa (metaforica), con cui conclude la sua parabola, è allora il trattamento normale, leale e sincero, quasi affettuoso che riceve da Trautman stesso. Impedendo a Rambo di uccidere lo sceriffo, questi di fatto lo salva dal linciaggio giudiziario e forse anche materiale che avrebbe subito.
Il film in definitiva, pur centrando a modo suo l’obiettivo di mostrare il disagio sociale ed esistenziale della generazione dei “segnati” dal Vietnam, evidenzia un tratto preoccupante, in parte premonitore. Cosa giustifica nel profondo, a livello antropologico e sociologico, lo straordinario successo mondiale di un film così esplicitamente brutale, che fa dell’esibizione della violenza l’unico motore della sua narrazione? Mistero.
I numerosi seguiti, a oggi se ne contano ben quattro (speriamo siano terminati), non reggono il paragone con l’originale. Nessuno di questi (definiti dal Morandini “fumettistico” Rambo 2 La Vendetta del 1985, e “uno spot pubblicitario per una fabbrica di esplosivi” Rambo III del 1988) mantiene la barra nella direzione di una qualche tematica che richiami la valenza storica e sociale del romanzo di Morrell, in parte ben riprodotta dal primo film. Si tratta solo di sequel di cassetta, nati sulla scia dell’enorme successo commerciale del Rambo 1982, che rimane a tutt’oggi inimitabile. Per fortuna, ci viene spontaneo aggiungere.
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