Ieri Mario Draghi ha presentato il rapporto sulla competitività dell’Unione europea. Nel report commissionato da Ursula von der Leyen, presidente della Commissione, l’ex presidente del Consiglio italiano ha illustrato le linee guida per rilanciare l’economia dell’Unione cresciuta negli ultimi vent’anni in misura nettamente inferiore a Cina e Stati Uniti. L’Ue si trova in una congiuntura particolare perché le tre condizioni esterne che ne hanno sostenuto la crescita (commercio, energia e difesa) sono venute meno. L’Europa ha beneficiato dell’incremento dei commerci globali potendo importare liberamente i beni e i servizi di cui aveva bisogno per poi esportare quanto prodotto dalla sua industria; il sistema di commerci multilaterali, nota Draghi, è però in profonda crisi e l’era della rapida crescita dei commerci globali sembra essere finita. L’Europa è stata in grado di soddisfare la sua domanda di energia grazie ai gasdotti dopo la normalizzazione dei rapporti con la Russia; questa fonte di energia economica è però scomparsa, causando un “enorme costo” per l’Europa. La stabilità geopolitica garantita dall’egemonia americana ha permesso all’Europa di beneficiare dei “dividendi della pace” spendendo meno per la difesa. Anche questa condizione è venuta meno dopo l’invasione dell’Ucraina, il deterioramento dei rapporti tra Cina e Usa e la crescente instabilità in Africa.



Dunque il modello economico che ha sostenuto l’Europa negli ultimi due decenni è obsoleto perché le condizioni che l’hanno permesso non esistono più. Nel rapporto si legge, tra l’altro, che l’Europa “dovrebbe imparare dagli errori fatti nella fase di iperglobalizzazione”. La globalizzazione ha permesso a centinaia di milioni di persone di uscire dalla povertà, ma dagli anni 80 la quota di reddito destinata a remunerare il lavoro, nelle economie del G7, è scesa di 6 punti di Pil: è il più grande calo da quando i dati sono disponibili e cioè dal 1950. E nessun’area tra le economie occidentali ha scommesso sui commerci e sulle esportazioni come l’Europa.



Di fronte a questo scenario Draghi consiglia all’Europa di puntare su innovazione, decarbonizzazione e difesa e di farlo con maggiore coesione e attenzione al mercato unico. Per tenere insieme gli obiettivi di inclusione sociale, decarbonizzazione, rilevanza geopolitica e crescita, l’Europa, dice Draghi, deve investire 750-800 miliardi di euro all’anno, pari al 4,4-4,7% del suo Pil. Questo significa investire il triplo di quello che si è investito con il piano Marshall tra il 1948 e il 1951, quando l’Europa uscì distrutta dalla guerra. Sia il settore pubblico, anche con strumenti di debito comune, che quello privato sono chiamati a contribuire a questo sforzo.



Ora facciamo un passo indietro. Il nuovo scenario, come ripete da mesi il gotha della finanza americana, è inflattivo. La fine della globalizzazione, l’invecchiamento della popolazione, le maggiori spese per difesa e transizione energetica sono forze inflattive di lungo periodo. Questo significa che anche i tassi di interesse saranno più alti della fase che si è chiusa. L’Europa, ce lo spiega Draghi nel rapporto di ieri, deve reinventare un modello di crescita in uno scenario di risorse scarse. Gli investimenti colossali sono necessari perché l’Europa deve ottenere la crescita dentro i binari della decarbonizzazione, della coesione sociale e di un ruolo geopolitico condiviso con gli alleati. Vista da fuori l’unica cosa certa di questa ricetta sono i costi. Non solo. Sappiamo che né gli Stati Uniti, né la Cina, né le medie potenze hanno intenzione di intraprendere lo stesso percorso green dell’Europa. Molte potenze industriali emergenti, una su tutte l’India, mantengono ampia flessibilità geopolitica.

Ciò che non si è compreso a sufficienza (ma che alcuni hanno compreso benissimo) è che gli investimenti che l’Europa dovrebbe attuare non sono “gratis”; pesano sui bilanci pubblici, tanto più in una fase di interessi più alti, e generano inflazione. Trasformare completamente un sistema energetico, che è la base del sistema industriale, comporta costi colossali per le reti, richiede nuove miniere, metalli, nuove catene di fornitura. Investimenti e debito sostengono l’economia, ma poi presentano il conto. L’abbiamo imparato negli ultimi due anni con una fase inflattiva che non si vedeva da 40 anni e con i bilanci pubblici sotto pressione, mentre oggi la campagna elettorale americana è dominata dal calo del potere d’acquisto dei salari.

Il sogno green e di “indipendenza” geopolitica europea comporta rischi. Il più evidente è che i competitor europei hanno deciso di entrare in questo nuovo scenario molto più “leggeri”, senza pesi inutili. L’Europa, nel breve, accetta più costi; mentre però i costi sono certissimi, se i calcoli sui tempi necessari alla transizione o sulla velocità degli sviluppi geopolitici sono sbagliati questo svantaggio si prolunga e mina la competitività del sistema europeo. Non è chiaro poi perché dentro l’Europa Paesi con vantaggi competitivi certi, come la Spagna con il suo sistema energetico o la Germania con il suo spazio fiscale, debbano rischiare di perdere il vantaggio in nome di una maggiore unità.

L’analisi sullo stato presente dell’economia europea dovrebbe far rinsavire l’Europa; l’Unione deve concepirsi “povera”, oggi invece annuncia al mondo di essere in crisi, ma di volersi permettere lussi che molti altri non si vogliono permettere. Con il rapporto Draghi l’Europa annuncia al mondo di non essere un soggetto politico compiuto e questo, a maggior ragione, dovrebbe consigliare realismo. Il sogno europeo, un piano di investimento triplo rispetto al piano Marshall, sarà, in ultima analisi, garantito dai risparmi degli europei, chiamati, volenti o nolenti, a garantire il piano della Commissione.

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