Il Rapporto annuale dell’Inps contiene una lettura delle tendenze economiche e sociali che vanno oltre la dinamica della spesa previdenziale che rimane il compito primario della sua missione istituzionale. Il bilancio dell’ente rendiconta un volume di prestazioni di varia natura che nell’insieme rappresentano circa il 40% del bilancio pubblico aggregato, la quasi totalità della spesa statale assistenziale, destinate alla stragrande maggioranza delle famiglie residenti. La sostenibilità di questa spesa dipende dalle variabili economiche, a partire dalla crescita dei redditi da lavoro che rimangono la principale fonte delle entrate.



I dati salienti del voluminoso Rapporto redatto dagli organismi dell’Istituto sono stati illustrati in modo efficace dalla relazione tenuta ieri in una sala del Parlamento dal Commissario straordinario dell’Ente dott.ssa Micaela Gelera alla presenza del ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Marina Calderone e di numerose Autorità istituzionali.



Nel 2022 sono state erogate poco meno di 21 milioni di rendite pensionistiche per 16,1 milioni di pensionati, per un importo complessivo di 322 miliardi di euro. Un numero di poco superiore a quello dell’anno precedente. L’importo medio mensile delle pensioni di anzianità e anticipate e di 1.915 euro, quello di vecchiaia 889 euro, che scende a 470 euro per le prestazioni assistenziali. Le donne, nonostante rappresentino il 52% dei pensionati (8,3 milioni) beneficiano del 44% delle risorse per effetto degli importi medi delle rendite pensionistiche largamente inferiori, più di un terzo, rispetto ai maschi a causa delle discontinuità delle carriere che comportano ritardi nel raggiungimento dei requisiti contributivi soprattutto per le pensioni anticipate. Per la prima volta l’età media di pensionamento risulta superiore per le donne (64,7 anni) rispetto a quella degli uomini (64,2 anni).



Nel complesso il numero delle pensioni anticipate si è ridotto del 3% per via della scadenza della Quota 100.

Un contributo notevole per la sostenibilità del sistema pensionistico è stato offerto dalla crescita del numero dei contribuenti attivi, 26,2 milioni (+2,6% rispetto al 2019), e delle settimane medie lavorate nell’arco dell’anno, 43 (+4,1%), che nell’insieme hanno contribuito ad aumentare il gettito contributivo del 9,3% per un totale di 236,3 miliardi al lordo delle agevolazioni erogate dallo Stato alle imprese e ai lavoratori. Il risultato della crescita quantitativa dell’occupazione (oltre mezzo milione rispetto al mese al 31 dicembre 2019 nelle stime dell’Istat) e della qualità dei rapporti di lavoro derivante dall’incremento superiore alla media di quelli a tempo indeterminato. L’aumento dei contribuenti attivi risulta concentrato sui lavoratori dipendenti, il 78% dei contribuenti (+6% rispetto al 2008), che ha largamente compensato la riduzione di quelli autonomi nel medesimo periodo. Il tasso di crescita degli occupati risulta: superiore alla media per i giovani under 34 anni (+5,8%) e per le donne (+3,2%); omogeneo sul territorio nazionale, sud e isole compresi, nonostante permanga il divario negativo del Mezzogiorno accumulato a partire dalla crisi economica del 2008. In parallelo si è registrata una consistente riduzione dell’utilizzo delle Casse integrazioni guadagni che risulta inferiore rispetto al 2019.

I dati relativi all’incremento del gettito contributivo consentono di fare una proiezione sull’andamento dei redditi da lavoro corrispondenti all’imponibile contributivo, circa 650 miliardi, superiore dell’8% rispetto al 2019. Per la quota dei dipendenti la crescita dei redditi risulta influenzata dall’aumento degli occupati e dell’intensità delle lavorate, a fronte di un andamento dei salari nominali relativamente stabile. L’incremento dei redditi da lavoro dipendente risulta inferiore nei settori caratterizzati da un minor tasso di impiego ufficiale delle risorse umane (costruzioni, logistica, servizi alle imprese, alloggio e ristorazione oltre all’agricoltura e al lavoro domestico che non vengono considerati nelle stime). La tenuta del valore dei salari e degli stipendi netti di fronte alla crescita dell’inflazione è stata assicurata in modo decisivo dagli sgravi contributivi sulle retribuzioni medio basse fino a 35 mila anno, per un valore mensile di circa 100 euro.

L’impatto dei provvedimenti di sostegno ai redditi adottati dai Governi in carica tra il 2018 e il 2022 ha consentito un aumento del 25% dei redditi nominali delle famiglie che rientrano nell’ultimo quinto di spesa, quello più povero, rispetto a quello medio del 9% registrato il resto dei quintili. L’incremento del reddito nominale, rafforzato dalla crescita del numero medio degli occupati per nucleo, da 2,3 a 2,5, è risultato sufficiente a compensare la crescita dell’inflazione delle famiglie più povere, che risulta negativo (-1,2%) per il complesso dei redditi familiari.

Le tendenze positive illustrate dal Commissario dell’Inps smentiscono alcune narrazioni che continuano a caratterizzare il dibattito pubblico sul tema della formazione e della distribuzione del reddito. In particolare quelle che descrivono una deriva del numero dei lavoratori poveri e delle disuguaglianze interne alla popolazione. Semmai dimostrano che la via maestra per contrastare le criticità che si sono manifestate nel mercato del lavoro è rappresentata dalla capacità di consolidare i tassi di crescita dell’economia e dell’occupazione. Nonostante i numeri positivi, i nostri livelli di occupazione sono ancora lontani dal poter garantire la sostenibilità delle prestazioni sociali in un Paese che registra un elevato invecchiamento della popolazione.

I risultati ottenuti sono principalmente il frutto di due fattori. Il primo: l’incremento sistematico della spesa assistenziale statale a sostegno dei redditi e dei salari netti, ivi compreso il pagamento dei contributi previdenziali per le nuove assunzioni e per la riduzione del cuneo, per un importo attualmente equivalente a 30 miliardi di euro l’anno. Proiettati sul medio lungo periodo, queste politiche sono palesemente insostenibili. A maggior ragione se a dover finanziare sono rimasti i cosiddetti redditi medio alti (per convenzione condivisa dall’intero arco politico sono diventati quelli superiori ai 35 mila euro lordi anno) che si fanno fiscalmente carico del 60% della spesa sociale e ai quali viene negato l’accesso a buona parte delle prestazioni.

La crescita quantitativa e qualitativa dell’occupazione è anche il frutto, purtroppo trascurato, di fattori negativi. In primis, la riduzione della popolazione in età di lavoro e l’aumento del mismatch tra i fabbisogni delle imprese e i lavoratori disponibili per la carenza di competenze o di disponibilità. Fattori che stanno orientando le imprese a fidelizzare il più possibile le risorse umane disponibili anche di fronte all’incertezza del mercato.

In pratica, per ottenere i risultati descritti nel rapporto dell’Inps stiamo raschiando il fondo del barile con mezzi, se prolungati sul medio periodo, che rischiano di generare risultati opposti alle aspettative. Un aumento dei debiti pubblici e delle difficoltà di trovare lavoratori.

Le risposte strutturali a queste criticità sono rappresentate dalla capacità di far crescere in modo consistente i tassi di produttività e di occupazione. Tutto questo è possibile a tre condizioni: che venga rimediato in ogni ambito l’abnorme sottoutilizzo delle risorse finanziarie tecnologiche e umane disponibili; che il problema venga assunto in presa diretta dagli attori protagonisti, a partire dalle imprese e dalle rappresentanze del mondo del lavoro; che le istituzioni pubbliche utilizzino le risorse a disposizione per incentivare i comportamenti virtuosi delle persone, delle famiglie e delle imprese funzionali a migliorare le proprie condizioni economiche e di vita e a generare un valore aggiunto per la comunità.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI