Ieri Istat ha presentato il Rapporto annuale sulla situazione del Paese, integrando una grande quantità di dati relativi al 2022. Il Presidente Francesco Maria Chelli nel suo intervento ha abbozzato un efficace riassunto del 2022: la fine dell’emergenza sanitaria, accompagnata da una forte spesa pubblica, ha dato il via a un ciclo di crescita che dura anche oggi, seppure si stiano manifestando alcuni segnali di rallentamento. Questo è avvenuto nonostante la guerra e la crescita dei costi dell’energia, che hanno dato una spinta inflazionistica forte, in calo ma ancora da assorbire.



La domanda interna ha sostenuto consumi, investimenti (anche grazie agli incentivi in edilizia) e tramite questi una crescita dell’occupazione che ha portato il numero degli occupati sopra i livelli del 2008 e il tasso di occupazione circa al 61,2%.

I punti chiave che il rapporto cattura, però, non sono solo quelli congiunturali e di breve periodo, ma sono soprattutto i nodi strutturali che il Paese si trova di fronte. Anche l’efficacia della spesa pubblica si scontra con i limiti strutturali del Paese: oltre un certo limite spendere di più senza correggere il tiro e riformare potrebbe non servire.



Quello che Istat racconta del Paese parte dalla lettura dei fenomeni demografici: l’invecchiamento della popolazione ormai ha preso una china che pare inesorabilmente in discesa. Il rapporto sottolinea che il calo delle nascite è dovuto per l’80 per cento alla diminuzione delle donne tra 15 e 49 anni di età e per il restante 20 per cento al calo della fecondità. Se anche la fecondità risalisse, in altre parole, si potrebbe recuperare solo una parte del calo demografico assoluto che il Paese sta vivendo. Si tratta di un dato che, nelle previsioni di Istat, inevitabilmente incide sulla crescita futura del Paese in termini di ricchezza.



Cosa fare allora nel medio e nel breve periodo, visti i tempi lunghi o lunghissimi di un’eventuale politica demografica di successo?

Puntare di più sui giovani, suggerisce l’istituto. Proprio perché sono pochi, bisognerebbe valorizzarli di più! Il che vuol dire farli lavorare prima, cominciare a pagarli meglio e prima e farli stare meglio. Non si tratta solo di essere più buoni: qualunque cosa si pensi dei giovani odierni, trattarli meglio è un interesse collettivo, vale a dire una questione di crescita della ricchezza di tutti. Chi non è buono, si occupi del benessere dei giovani almeno perché è un egoista intelligente!

Purtroppo il Paese invece non fa molto. Gli indici che riguardano il benessere dei giovani in Italia sono ai livelli più bassi in Europa. Il 47,7% dei giovani italiani è vulnerabile in uno o più di alcuni dei 12 domini del benessere (salute, lavoro, formazione, ecc.); il 15,5% sono i cosiddetti multi deprivati, vale a dire quelli che sono in sofferenza su più aspetti contemporaneamente. C’è quindi molta strada da fare per rimettere i giovani in condizione di dare un contributo decisivo alla crescita del Paese.

Istat si spinge a suggerire che si tratta del migliore investimento di lungo periodo che possiamo fare, tanto da richiedere una ridefinizione della spesa pubblica che punti su giovani e sul rafforzamento delle loro condizioni fin dai primi momenti della loro vita.

Il rapporto contiene molti più dati e molte più considerazioni e indicazioni di quelle che è possibile inserire in un articolo di presentazione. La sua organizzazione in quattro grandi capitoli (eredità del passato e investimenti sul futuro, cambiamenti nel mercato del lavoro e investimenti in capitale umano, criticità ambientali e transizione ecologica, sistema produttivo tra resilienza e innovazione), sono corredati da schede e infografiche che consentono di informarsi anche ai lettori con poco tempo. Ci torneremo sopra in futuro.

Istat fornisce i numeri e un invito alla politica ad agire con uno sguardo di lungo periodo e a colmare le diseguaglianze che danneggiano la crescita del Paese. Ma l’invito a capire cosa succede e l’invito all’azione, a ben leggere, riguardano chiunque abbia a cuore il bene comune.

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