La pandemia da coronavirus non si ferma, anzi stringe sempre più i suoi tentacoli su molti paesi, ma non si può certo dire che sia arrivata del tutto imprevista. A settembre 2019, infatti, il Global Preparedness Monitoring Board dell’Organizzazione mondiale della sanità aveva redatto un documento, dal titolo “Un mondo a rischio”, che a rileggerlo oggi mette i brividi: in quelle 48 pagine si avvertiva del probabile arrivo di un virus patogeno, paragonabile al Coronavirus, in grado di far deflagrare “un’emergenza sanitaria globale”. Scrivevano gli esperti dell’Oms: “C’è una minaccia molto reale di una pandemia in rapido movimento, altamente letale, di un agente patogeno respiratorio che uccide da 50 a 80 milioni di persone e spazza via quasi il 5% dell’economia mondiale”. E aggiungevano: “Il mondo non è preparato”, visto che “Molte delle raccomandazioni esaminate sono state attuate male, o non sono state attuate affatto e persistono gravi lacune. È ormai tempo di agire”. Una pandemia, dunque, era attesa? E perché l’allarme dell’Oms non è stato preso in considerazione? Ne abbiamo parlato con Eugenia Tognotti, Professore ordinario di Storia della medicina e Scienze umane dell’Università degli Studi di Sassari.
A settembre l’Oms aveva previsto come “evento inevitabile” la comparsa di un virus zoonotico, respiratorio, influenzale e dalla Cina. E’ il ritratto del Coronavirus e della situazione che oggi stiamo vivendo. Perché le previsioni puntavano sulla Cina e su un virus simile?
Bisogna partire dal fatto che da molti anni si aspettava l’arrivo di una pandemia influenzale.
Perché?
C’è da dire che l’evenienza di un’emergenza epidemica di natura influenzale era stata messa in conto da tempo. Bisogna tener conto, quando si parla dei principali problemi posti dai virus influenzali, della loro pressoché totale imprevedibilità, cosa che rende enormemente difficile predire quando e dove inizierà la prossima epidemia e quale sarà il virus in grado di causarla.
Per esempio?
Da più di un decennio circola, in diverse parti del globo, un virus influenzale aviario, denominato A/H5N1, che compie sporadicamente dei salti di specie dai volatili all’uomo. Ha causato alcune centinaia di casi soprattutto nel Sud-Est asiatico e in Egitto. Quel virus, che ha destato parecchio allarme intorno al 2005, si trasmette però con difficoltà da persona a persona, per cui il rischio di una sua diffusione all’interno delle comunità umane è rimasto basso nel corso del tempo. Intanto, però, altri virus aviari hanno fatto comparire sulla scena focolai epidemici in comunità umane, da H7N7 a H7N9, un virus diffuso nel pollame in Cina e causa di gravi polmoniti caratterizzate da un elevato tasso di letalità nell’uomo. Anche questi virus, come H5N1, non si trasmettono con efficienza da persona a persona e non sono pertanto in grado di dar vita a una trasmissione sostenuta nelle comunità umane. E’ difficile da predire se una serie di mutazioni adattive piuttosto che, con maggior probabilità, lo scambio di segmenti genici tra virus influenzali diversi possa un giorno modificare la capacità di un virus aviario di trasmettersi per contagio interumano. Basti solo pensare che nel 2009, quando tutti si aspettavano una possibile pandemia causata da un virus aviario proveniente dalla Cina, abbiamo invece assistito alla comparsa, “umanizzazione” (adattamento all’uomo) e rapida diffusione di un virus di origine suina emerso a “ovest”, per la precisione in Messico. Da qui si è fatta strada una certezza nella comunità scientifica e tra gli esperti di sanità pubblica.
Quale certezza?
La frequenza delle vampate epidemiche è sempre più ravvicinata, mentre vanno emergendo a ritmo preoccupante malattie nuove. Basti pensare che dagli anni Settanta in poi sono comparse sulla scena patologica una trentina di nuove malattie, alcune delle quali terrificanti come l’Aids, la febbre di Ebola, la Sars, la malattia di Marburgs, il morbo del legionario, che anche di recente ha provocato numerose vittime in Francia, nel cuore cioè dell’Europa ricca e opulenta. Ma un altro dato inedito s’impone all’attenzione: le malattie degli animali potrebbero rappresentare in futuro una delle più gravi minacce per la salute umana, anche per l’aumento della popolazione globale. Più questa aumenta, più la nostra specie si sposta in habitat selvaggi (disboscamento, deforestazione) e incontra specie selvatiche che ospitano virus.
Si può parlare di evenienze biologiche ricorrenti?
E’ ormai assodato che, a certe condizioni, i virus dell’influenza che colpiscono specie diverse possono subire un processo di scambio o riassortimento genetico che consente loro di infettare un’altra specie. Lo spettro della pandemia influenzale prossima ventura, modello “Spagnola”, è da tempo all’orizzonte ed è legato alla possibilità che il virus dell’influenza dei polli riesca ad agganciarsi a quello dell’influenza umana, dando vita a un virus di alta patogenicità e facilmente trasmissibile. Più del 75% delle malattie emergenti ha origine negli animali (zoonosi). Almeno 10 focolai negli ultimi decenni sono saltati sugli umani da animali come pipistrelli, uccelli e maiali. Il coronavirus sta drammaticamente dimostrando che rappresentano e possono rappresentare anche in futuro una delle più gravi minacce per la salute umana.
Dove sta la loro crescente pericolosità?
Dal fatto che il rischio è enormemente aumentato a causa dell’intensificarsi dei viaggi internazionali, del commercio e del cambiamento delle interazioni tra uomo e animali selvatici. Ormai in 24 ore ci spostiamo da una parte all’altra del pianeta. L’urbanizzazione, la velocizzazione dei trasporti e la globalizzazione permettono a virus, batteri e parassiti di diffondersi rapidamente ovunque, perché naturalmente viaggiano senza passaporto.
Perché il più delle volte queste pandemie partono dalla Cina?
Oggi si sa che le pandemie di influenza sono emerse in virtù dello sviluppo da diversi secoli in Cina dei sistemi agricoli di allevamento integrato anatra-maiale. I ceppi che causano le frequenti epidemie annuali o biennali generalmente sono il risultato di un meccanismo di deriva antigenica (antigenic drift), che implica una serie di mutazioni a un tasso costante nel virus per evadere il sistema immunitario dell’ospite. Invece i virus responsabili delle pandemie emergono per un cambiamento antigenico improvviso (antigenic shift). Quest’ultimo tipo di cambiamento avviene per un riassorbimento nei maiali di segmenti genici provenienti da ceppi virali che hanno le anatre come principali serbatoi, con l’emergere di ceppi in grado di infettare i mammiferi tra cui l’uomo.
Torniamo al rapporto Oms. Perché nessuno lo ha letto o ha preso in considerazione questo allarme?
C’è da dire che l’Oms ha perduto in questi ultimi anni, anche per il disimpegno dei governi, la funzione di guida nelle politiche sanitarie del mondo, anche per uno spostamento di poteri e influenze verso la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale.
Nel rapporto dell’Oms a leggere gli effetti sociali ed economici viene la pelle d’oca: dai 50 agli 80 milioni di contagiati nel mondo. Oltre alla carica infettiva, un virus come il coronavirus si può diffondere su così larga scala perché i sistemi sanitari non sono ancora pronti a contrastarlo e a resistere?
Il coronavirus ci sta impartendo una severa lezione. Se vogliamo seriamente tutelarci, i governi del mondo devono fare investimenti proattivi a lungo termine in prodotti farmaceutici, attrezzature mediche, forniture e ricerca di base. E le “lezioni apprese” devono confluire nel “Piano nazionale di preparazione e risposta a una pandemia influenzale” che tutti gli Stati avevano in preparazione, dopo l’emergenza della Sars. Questi piani prevedono tutte le misure che i sistemi sanitari devono far scattare per prepararsi all’arrivo di una catastrofe sanitaria. Dopo la Sars, tutti gli Stati dovevano procedere alla stesura di questo piano, ma subito dopo non se ne è saputo più nulla. Probabilmente, come avviene sempre, le società dimenticano presto le paure.
Oggi vediamo immagini strazianti. Una su tutte: i camion militari trasformati in carri funebri che trasportano decine di morti in una sepoltura solitaria, anonima e lontano dai propri affetti famigliari. Non era mai successo in Italia?
Ai tempi della spagnola, nel 1918, Milano era come Bergamo oggi. In un solo giorno, il 16 ottobre 1918, a Milano morirono 127 persone, i cadaveri venivano portati via con i camion e i funerali erano proibitissimi. Ho trovato all’Archivio Centrale dello Stato un gruppo di lettere di familiari di emigranti, censurate. Alcuni scrivevano all’estero raccontando che rinunciare ai funerali in chiesa di congiunti scomparsi era più doloroso della morte stessa. Una donna scriveva che i morti venivano portati via sui camion come fossero secchi di seppie.
Da queste pandemie come ci si difende?
Con un’adeguata rete di sorveglianza, con la cooperazione internazionale e, naturalmente, con i vaccini, senza dimenticare che questi ultimi non si preparano dall’oggi al domani, devono passare attraverso diverse fasi, precliniche e cliniche, vanno testati sugli animali, poi sugli uomini. Speriamo che, per l’urgenza, alcune fasi cliniche non vengano saltate. Inoltre, con la ricerca tesa a mettere a punto farmaci anti-virali.
Ogni pandemia ha una storia a sé o si può imparare qualcosa dalle pandemie del passato?
Ogni pandemia può insegnare qualcosa. La Sars ha dato una grande lezione. Ma, in generale, le acquisizioni delle esperienze del passato sono molto importanti. Qualche anno fa, negli Usa, il Dipartimento alla Difesa ha dato a un gruppo di storici l’incarico di indagare nelle pochissime aree del paese che si erano salvate dalla pandemia di spagnola, che aveva investito l’intero pianeta. Questo per raccogliere dati sulle misure di contenimento, sulle strategie e sulle condizioni che avevano avuto un peso nello sfuggire alla devastante influenza. Se ne sta parlando in questi giorni in cui si discute delle strategie utili a contrastare il coronavirus.
(Marco Biscella)