Se Sparta piange, Atene non ride. Questo emerge dal Rapporto Svimez 2024 che mostra una maggior crescita del PIL nel Mezzogiorno (0,9%) rispetto a quella del Centro-Nord (0,7%). Certo un dato che dovrebbe aiutare le politiche di congruenza dell’economia dei due territori, ma che ha dimensioni ancora ridotte per rappresentare una svolta. Anzi, il differenziale appare motivato più dalla stagnazione del sistema industriale nel Nord Italia (ed in generale mitteleuropeo) che da performance straordinarie del Mezzogiorno.
I dati raccontano anche che L’Italia si trova ad affrontare una crisi demografica profonda, caratterizzata da un calo delle nascite, l’allungamento della speranza di vita e un netto squilibrio tra Nord e Sud. Le migrazioni interne e internazionali continuano, aggravando le disparità socioeconomiche e territoriali. Dal 2002 al 2021, oltre 2,5 milioni di persone hanno abbandonato il Mezzogiorno, l’81% diretto verso il Centro-Nord. Al netto dei rientri, il saldo migratorio per il Sud è drammatico: una perdita di 1,1 milioni di residenti. A lasciare sono soprattutto i giovani: 808mila under 35 sono migrati verso il Centro-Nord, e tra questi 263mila laureati. Questo esodo di energie e competenze sta trasformando il Sud in un territorio sempre più anziano e impoverito.
A ciò si aggiunge che, per chi resta tra i giovani, i dati sono molto preoccupanti. Nonostante una riduzione significativa degli early leavers from education and training (ELET) negli ultimi anni, il fenomeno dell’abbandono scolastico resta una piaga. Nel 2008 quasi il 20% dei giovani lasciava prematuramente la scuola o la formazione professionale. Nel 2022, questa percentuale è scesa all’11,5%. Un miglioramento? Certamente. Ma sufficiente? Assolutamente no. L’Italia non è ancora riuscita a raggiungere il target del 10% fissato dall’Europa per il 2020 e resta distante dalla media europea del 9,6%. Questo significa che, mentre altri Paesi europei hanno affrontato il problema con decisione e risultati concreti, noi siamo ancora a metà strada.
Nel frattempo, 517mila giovani italiani, di cui 249mila nel Mezzogiorno, continuano a interrompere gli studi dopo la licenza media, privandosi di qualsiasi possibilità di crescita culturale, sociale e professionale. In pratica si continua a creare una massa di residenti del Mezzogiorno con scarsa o del tutto assente scolarizzazione, che non è interessata a fenomeni migratori (che invece riguardano i livelli di istruzione più elevati) e che rappresentano un capitale umano del tutto sprecato e da gestire come “problema” per i prossimi decenni.
Senza una popolazione residente preparata e dinamica difficilmente si possono cogliere le sfide della crescita economica civile che il Mezzogiorno dovrebbe perseguire. Anche perché si conferma che solo l’istruzione cambia le cose. Il biennio 2020-2022 ha segnato una svolta positiva per l’occupazione giovanile dei laureati, con un dato sorprendente: nel Mezzogiorno, il tasso di occupazione dei giovani laureati è cresciuto del 16%, una cifra doppia rispetto al Centro-Nord (+8,4%). Questo segnale incoraggiante evidenzia come la ripresa economica post-Covid abbia finalmente offerto maggiori opportunità anche nelle Regioni del Sud, almeno per i giovani più istruiti. L’analisi conferma un trend chiaro: nel mercato del lavoro post-pandemia, avere un titolo di studio superiore fa la differenza. Tra il 2019 e il 2023, i laureati hanno visto una crescita occupazionale dell’8,3%, mentre i diplomati hanno registrato un aumento del 3,6%. Al contrario, per chi ha al massimo la licenza media, gli occupati sono diminuiti del 6,2%, evidenziando le crescenti difficoltà per chi non dispone di qualifiche adeguate.
Del resto, Il dato più inquietante, però, è l’aumento della povertà tra chi lavora: nel Mezzogiorno, la povertà assoluta nelle famiglie con una persona occupata è salita dal 7,6% al 9,3% tra il 2020 e il 2022, colpendo in particolare operai e assimilati (+3,3 punti). Questo dimostra che un lavoro precario e malpagato non è più sufficiente per uscire dalla povertà. Il messaggio è chiaro: la crescita dell’occupazione non basta se non si interviene sulle cause strutturali. Salari dignitosi, investimenti nel Sud e maggiore tutela dei lavoratori precari sono le uniche soluzioni per evitare che il lavoro si trasformi in una nuova forma di povertà.
Con la spirale inflazionistica che è divenuta sempre più difficile da gestire, l’incremento del costo della vita ha portato a rendere meno solide le famiglie con un solo occupato: vivere nel Mezzogiorno è diventato di fatto più costoso, visto che, come sottolinea il rapporto, l’inflazione ha riguardato soprattutto i generi alimentari e di prima necessità, mettendo così in estrema difficoltà le famiglie monoreddito.
In generale, quindi, i numeri dicono che la situazione socio economica del Mezzogiorno resta ancora di forte disagio, nonostante alcuni segnali positivi, che però non hanno invertito le tendenze macroeconomiche. L’eventuale impatto sperato di piani di investimento straordinari, a partire dal PNRR, così come il boom edilizio del bonus 110, non sono riusciti a dare la scossa importante e strategica che ci si attendeva. Un lieve scuotimento, niente di più; ma non va mai dimenticato ciò che diceva Francesco Saverio Nitti “Il Mezzogiorno è una forza immensa e non bisogna scoraggiare le sue energie, che non sono mai spente e si rinnovano sempre”.
(1 – continua)
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