l pontificato di Benedetto XVI è scopertamente collegato a quello di Giovanni Paolo II, non solo per l’amicizia e lo scambio culturale che è regnato tra queste due personalità ecclesiali, quanto per la radice teologica che le ha accomunate: una radice esplicitamente e coscientemente esperimentata in Giovanni Paolo II fin da quando era arcivescovo di Cracovia, coerentemente e finemente analizzata da Benedetto XVI fin da quando era tra i periti del Concilio Vaticano II e arcivescovo della diocesi di Monaco e Frisinga. Di un tale sodalizio don Giussani, consapevole testimone, si è fatto il più diretto traduttore nel movimento da lui fondato e animato: quello di Comunione e Liberazione, che tanto avrebbe infastidito lo scolastico panorama degli anni settanta.
A ripercorrere gli schematismi di quel decennio emerge chiaramente la dicotomia, allora in auge nell’universo laico, che voleva serenamente e quietamente dividere la Chiesa tra progressisti, aperti al mondo ed alle sue novità, e conservatori, ossessionati dalle prassi rituali e celebrative della tradizione liturgica e, accanto a queste, in deliberata opposizione con una modernità che faceva del sovvertimento di ogni tradizione la propria immagine di marca. Il conflitto tra tradizione e modernità era percepito come uno scontro tra conservazione e innovazione, integralismo e innovazione.
La secolarizzazione, allora già pienamente manifesta, veniva volentieri ricondotta ad un mancato aggiornamento della Chiesa, ad una sua incapacità di recepire le nuove domande di autenticità e di libertà provenienti da un mondo moderno in evidente e trionfale ascesa. Chi non si poneva interamente tra le braccia di quest’ultimo e non ne sottoscriveva gli stili emergenti era decisamente ed inevitabilmente ricondotto nel recinto dei conservatori, pronti a negare ogni autentica conquista del progresso.
Così come, nei primi anni del suo pontificato, Papa Giovanni Paolo II è stato accusato di “guardare all’Italia con gli occhiali della Polonia”, cioè di importare un modello conservatore di tipo decisamente devozionale, Papa Benedetto XVI, a sua volta, è stato immediatamente giudicato come il modello della perfetta intransigenza. C’è voluto del tempo per cambiare i dizionari presenti nelle nostre mani di traduttori laici dell’universo ecclesiale per dotarcene di nuovi, là dove alla polarizzazione conservazione/progresso abbiano appreso a sostituire quella della presenza/separazione.
In questo nuovo dizionario la divisione passa tra quanti vedono l’annuncio religioso presente in ogni ambito della vita quotidiana e quindi in continuo dialogo con l’esistenza, privata o pubblica che sia, e quanti lo collocano invece nella sfera della coscienza interiore, dinanzi ad un mondo laico che procede in piena autonomia e, soprattutto, in serena indifferenza.
Se Giovanni Paolo II ha interrotto nella pratica questa ricostruzione di comodo, papa Ratzinger l’ha condotta ad un confronto con la ragione a partire dal quale l’ha criticata. L’annuncio evangelico è stato allora percepito come “invadente”, arrivando ad entrare e mettere in crisi i santuari più sacri della modernità contemporanea. Il primato della libertà individuale, il desiderio di autenticità, l’insofferenza verso le istituzioni di qualunque tipo e, soprattutto la radicale avversione per l’intera struttura ecclesiale, vista come la più esplicita rappresentante di tutto ciò che opprime e distrugge ogni autentico desiderio di umana felicità, sono stati altrettanti luoghi comuni che Benedetto XVI ha rimesso in discussione, mostrandone, di volta in volta, gli schematismi e le semplificazioni, l’implicita ingenuità e la scoperta ignoranza.
Così, il 17 gennaio 2008, precludendogli l’ingresso all’Università di Roma “La Sapienza” – stile immancabilmente ripreso negli anni futuri verso ogni pensiero non scolasticamente asseverato dinanzi al tribunale progressista – dove era stato invitato dal rettore per l’inaugurazione dell’anno accademico, i docenti di quest’ateneo si priveranno di una delle lezioni fondamentali di questo pontefice, lezione che attribuiva all’Università il compito di essere slegata da qualsiasi potere, ecclesiale o laico che fosse, per essere invece “legata esclusivamente all’autorità della verità”.
Meglio andrà già nel settembre di quello stesso 2008, quando Benedetto XVI, al Collège des Bernardins, di Parigi, avrà modo di spiegare al mondo della cultura francese come lo scopo dell’impresa monastica non fosse affatto quello di “creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato” bensì di “impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa”. Vita che coincideva certamente con la ricerca di Dio ma che, proprio per questo non significava affatto una rinuncia alla vita, bensì il pieno coronamento di quest’ultima.
Per Papa Benedetto XVI, esattamente come per il suo estimatore, don Giussani, l’annuncio cristiano entra in legame profondo non solo con la vita, ma anche, e soprattutto, con le più autentiche speranze che attraversano quest’ultima. Quelle che le scritture chiamano la “vita in abbondanza” e la liturgia eucaristica definisce come la “domenica senza tramonto”.
Da qui la radicalità del pensiero di Benedetto XVI, spiegato con quella solare chiarezza che solo i migliori posseggono e che, dopo ogni lettura di un suo testo, lascia colmi di saggezza.
Sommersi dalla storia che liquida rapidamente ogni fatto riponendolo negli archivi del “già noto”, dobbiamo tutti convincerci a leggere e comprendere i testi di un pontefice che, se non ha mutato il processo di secolarizzazione che caratterizza la modernità tardiva, ne ha mostrato le domande di verità che, inconsapevolmente, quest’ultima si porta con sé.
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