Disponibile nelle librerie e on line da qualche settimana, dopo essere stato preceduto da anticipazioni inopportune che ne hanno snaturato le caratteristiche puntando solo su alcuni contenuti più polemici e non su altri, il volume di memorie di monsignor Georg Gänswein (scritto con il vaticanista Saverio Gaeta) Nient’altro che la Verità. La mia vita al fianco di Benedetto XVI (Piemme, 2023), nelle sue oltre 300 pagine ci presenta il ritratto – come ha scritto l’autore – di “un uomo mite, un fine studioso, un cardinale e un Papa che ha fatto la storia del nostro tempo”. Suo stretto collaboratore, ma anche consigliere e confidente vicino a Ratzinger per quasi un ventennio, don Georg ci offre una ricostruzione a tutto campo di un periodo difficile per la Chiesa. Ma ci fa conoscere anche aspetti poco noti della vita del Papa tedesco, comprese le omelie domenicali – inedite – pronunciate durante le Messe celebrate per pochi intimi nei primi anni del pontificato emerito: uno scrigno di riflessioni preziose, un aiuto a vivere la fede in modo maturo e consapevole.



“Imparate una fede gioiosa, imparate che realmente vivere con il Padre, vivere secondo la parola di Dio, è la vera felicità e l’abbondanza della vita”. Così Benedetto XVI il 10 marzo 2013, in una delle prime omelie domenicali “private” pronunciate a Castel Gandolfo, nella cappella del Palazzo apostolico, nel periodo da lui  trascorso lontano da Roma dopo la rinuncia. Don Georg nel suo libro di memorie sottolinea che queste prediche erano solitamente di breve durata ed erano centrate, “con parole molto sentite, sugli aspetti più essenziali della fede”. Il 17 marzo 2013 il Papa emerito spiega che cos’è la conversione: non semplicemente “un atto autonomo del soggetto” ma “un incontro”, che poi “implica naturalmente la mia attività: sono conquistato per conquistare”. Il 21 aprile 2013 si sofferma sulla missione universale della Chiesa: “Dio trova gli uomini in tutte le parti del mondo e della storia. E così traspare la realtà della Chiesa: sul globo appare sempre povera e semplice ma, se vediamo il mondo nella sua totalità, vediamo una famiglia che supera tutte le frontiere”.



Ancora a Castel Gandolfo, il 28 aprile 2013, evidenzia che il “dono fondamentale” fatto da Dio all’uomo è la creazione: “Il primo dono di Dio è la vita, e dobbiamo prendere atto di questa realtà”. Finiti i lavori di ristrutturazione del monastero Mater Ecclesiae, dove aveva espresso il desiderio di risiedere, il 2 maggio rientra in Vaticano, dove continua la sua catechesi familiare. Rivolta appunto, come scrive monsignor Gänswein, “alla nostra piccola famiglia”, cioè lui stesso, le Memores e i più stretti collaboratori (“in alcuni periodi era presente anche il fratello Georg e, molto più raramente, qualche ospite”). L’atmosfera è davvero intima e raccolta, al punto che Benedetto introduce sempre le omelie con un affettuoso “cari amici”, quasi si trattasse della “dilatazione dei colloqui spirituali che avvenivano anche nella normalità della giornata domestica, a tavola o durante le passeggiate” nei Giardini Vaticani. Sono le Memores ad avere “amorevolmente registrato e trascritto” le prediche domenicali del Papa emerito, citate nel libro di Gänswein.



Nei giorni di festa in cui si faceva memoria di santi significativi, all’inizio della celebrazione eucaristica proponeva talvolta “un breve richiamo alle loro figure” perché “i migliori interpreti del Vangelo non sono gli esegeti”, rimarcava, “ma quelli che sono diventati santi, con la testimonianza della loro vita”. Le riflessioni di Benedetto XVI nella cappella del Mater Ecclesiae cominciano ad estendersi “dall’ambito catechetico alla più ampia dimensione dell’attualità, offrendo anche giudizi precisi sulle vicende del nostro presente”. Proprio nella prima omelia in monastero (12 maggio 2013), il Papa emerito denuncia “la persecuzione più sottile del cristianesimo, cioè la sua emarginazione intellettuale, con la creazione di una cultura anticristiana”. Concetto che riprenderà in seguito – più di un anno dopo – nell’omelia del 10 agosto 2014, quando affermerà che le minacce contro la Chiesa sono due: “i venti delle ideologie, che vogliono distruggere il nostro cosmo, e le onde dei poteri politici e militari, che sono persecuzioni e distruzione della fede”.

Non mancano giudizi netti e inequivocabili sulla cancellazione dell’umano da parte della cultura dominante. Così, stigmatizza a chiare lettere le leggi su aborto, suicidio assistito e matrimonio omosessuale. Nell’omelia del 22 settembre 2013 afferma che queste norme “dicono tutte e tre che io prendo per me la vita, posso distruggerla, è mia proprietà” e impossessandomene manifesto la mia sovranità, la mia autonomia. Ma, prosegue, “se guardiamo più in profondità dobbiamo dire che questa triade implica anche un no al futuro: aborto, non vogliamo avere figli; suicidio; matrimonio omosessuale, necessariamente senza figli”. Di fronte a questo preoccupante scenario, qual è il compito dei credenti? Mostrare “la forza della croce di Cristo, a difesa della vita contro le forze della distruzione” (9 febbraio 2014). Altrimenti il cristianesimo si ridurrà a “un conformarsi al mondo, senza più il coraggio della passione per la verità. Un cristianesimo che sembra moderno, all’altezza dei tempi, ma in realtà è senza sapore e privo di ogni forza di verità”.

Commentando il 17 novembre 2013 il “discorso escatologico” del brano evangelico di Luca 21, in cui Gesù preannuncia distruzioni e persecuzioni, il Papa emerito osserva che nelle parole del Salvatore “c’è una sorpresa”. Infatti “non appare l’elemento fondamentale della moderna filosofia della storia, che ha come concetto centrale il ‘progresso’”. Precisa Ratzinger: “Secondo questa visione, la storia è ascendente: ci sono aberrazioni, piccole ricadute, ma tutto sommato alla fine si arriva alla società fraterna e giusta, a un mondo migliore, a una specie di paradiso terrestre”. È quello che annuncia  Cristo? No. Perché “Gesù invece parla di catastrofi naturali, di violenza crescente, di guerre e anarchia, di persecuzioni e di un raffreddarsi della fede, indicandoci sostanzialmente che la storia dell’uomo rimane identica sino alla fine”. Pochi mesi dopo, il 25 maggio 2014, interrogandosi sulle ragioni della “vittoria” inattesa del cristianesimo nel confronto con le religioni dell’antichità, Benedetto XVI ci indica un cammino.

Il fattore principale dell’affermarsi della fede cristiana nella storia è la testimonianza. È infatti accaduto che “in un mondo dove erano normali la corruzione, la violenza, l’immoralità, la mancanza di un comune impegno per il bene, i cristiani hanno vissuto con rettitudine, con integrità, con bontà, soffrendo ma senza fare il male”. E qual è stato l’esito della testimonianza, fino al martirio? Una tale esistenza “era un segno così radicale ed evidente che ha convinto, poiché un vivere così non si spiega con le pure forze umane, ma dimostra realmente che è Dio a donare questa vita”. E concludeva: “La testimonianza cristiana è decisiva per la vittoria del cristianesimo anche in futuro”. Quel “futuro” preconizzato quasi nove anni fa è oggi.

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