Sesso, droga e rock’n’roll, ovvero come rinverdire la storica espressione anni Settanta in salsa rave party. Molto è cambiato da quei primi raduni di massa che prendevano a pretesto le tre icone dello sballo collettivo per farne una protesta politica “contro il sistema” in nome d’una certa idea di libertà.
Oggi la contestazione, se c’è, è passata in second’ordine a tutto favore del divertimento fine a se stesso, tant’è vero che l’espressione “rave party” si può tradurre con “festa del delirio”, laddove per delirio s’intende una percezione errata della realtà. Ridotta a nicchia socio-culturale la fede religiosa e archiviata sugli scaffali polverosi della storia quella illuministica nella ragione (che aveva la pretesa di risolvere tutti i guai), a dare un senso seppur minimo alle fatiche quotidiane rimane la voglia di perdersi nella musica (nel rumore?) sparata a palla senza interruzione, ottimo sistema per evitare inutili dialoghi (e domande di senso che non ammettono risposte sensate) e farsi i fatti propri.
Eppure, anche dietro un rave party come quello che s’è svolto nei giorni scorsi a Modena si nasconde (meglio sarebbe dire si manifesta) un grido di dolore – “sto disperatamente cercando un senso alla mia vita” – cacciato giù negli abissi profondi dell’anima e camuffato da sorrisi stralunati, parole insulse rilasciate ai media, pose strafottenti negli abiti e nei gesti. Proprio l’esibizionismo becero di giovani e giovanissimi in fuga da tutto e da tutti (tranne da coetanei come loro) è “l’urlo di Munch” lanciato come ultima ratio alla società che non sa, non vuole, non può capire.
Nessuna difesa per partito preso di questa novella “gioventù bruciata” che, rotti gli argini d’un mondo sempre più privo di scrupoli e dove tutto equivale a tutto, volta le spalle ai “doveri” e se ne infischia dei diritti sanciti per legge. Bene ha fatto il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, d’intesa col prefetto della città emiliana e le autorità di Polizia, a intervenire con l’autorevolezza necessaria per far sgomberare l’edificio senza nemmeno usare la forza, come tutti temevano. Anzi, i partecipanti hanno persino messo mano a palette e ramazze per lasciare tutto in ordine.
E bene ha fatto il Consiglio dei ministri di ieri a mettere i paletti delle multe (fino a 10mila euro) e del carcere (fino a 6 anni) per raduni di tal genere: speriamo abbia anche la forza di farli rispettare (la storia degli ultimi decenni è carica di regole emanate e disattese).
Tuttavia, dire “è finita la pacchia”, lascia perplessi, perché via un rave party se ne può fare benissimo un altro in barba alle nuove regole, meno “gridato” o più nascosto oppure cambierà la formula che potrà anche essere peggiore (il pensiero corre al moltiplicarsi di baby gang, furti, pestaggi e quant’altro di cui è piena la cronaca, ma qui il discorso porterebbe lontano). Tagliato il frutto (marcio), resta la radice (buona) che ha sempre lo stesso nome: cercare, anche gridando, un senso alla vita lanciato a famiglia (sfasciata), scuola (buonista), politica (inguardabile) e alla stessa Chiesa, tante volte chiusa ancora nel rincorrere i divieti.
Tutto è dunque buio? No, “gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare” (diceva Bartali che, pure, un senso alla vita aveva trovato) proprio a partire da quel tanto di buono che vive dentro la famiglia, la scuola, la politica, la Chiesa in termini “alti”, religiosi o laici. E che non possiamo delegare alle sole regole della politica.
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